Vince la sfida dei «logoi»
I testi platonici sono pieni di contraddizioni, aporie, problemi irrisolti. Ma sono in linea con l’arte del maestro Socrate: non proporre tesi, ma un metodo per pensare
di Maria Bettetini (il Sole24ore domenica 1/6/14)
Platone al centro di un mistero, Platone sconfitto. Nessuno ha ancora scritto gialli con Platone protagonista, come invece ne esistono per Aristotele e altri filosofi, ma non stiamo parlando di un thriller. Stiamo leggendo un’opera in due volumi, millecinquecento pagine, scorrevole non proprio come un romanzo giallo, ma molto vicina a una lettura appassionante. È una nuova introduzione al pensiero di Platone, dove Maurizio Migliori raccoglie il portato di decenni di lavoro sulle pagine platoniche, e insieme rilancia un programma di lavoro per almeno altrettanti decenni. Non quindi uno studio sulle possibili interpretazioni di Platone, ma una lettura attenta e ripetuta dei Dialoghi e delle Lettere, e un invito a un rinnovato studio di ogni opera. A prima vista, si potrebbe pensare a un testo introduttivo più lungo degli altri, che non trascura né etica né politica, né i discorsi sull’anima né la definizione di dialettica. Ma il lettore rimane spiazzato da quanto si diceva all’inizio: il mistero e la sconfitta del filosofo ateniese dalle spalle larghe (o forse dalla fronte ampia, o grande e grosso, platýs).
Afferma infatti Migliori che è ben strana l’assenza di un quadro unitario nelle interpretazioni platoniche, essendo in possesso molto probabilmente della sua intera produzione scritta. Ne fa fede anche l’opposta via percorsa dai suoi seguaci, le soluzioni di Aristotele da una parte, neoplatoniche dall’altra, del problema del rapporto tra principio e principiato, tra Bene e molteplicità, risolto con l’eliminazione del Demiurgo oppure riducendo la polarità a una unità dell’ineffabile primo principio.
Perché i testi platonici sono pieni di contraddizioni, di prese di posizioni opposte, di aporie ovvero problemi irrisolti? La risposta secondo Migliori è in quella che definisce la sconfitta del filosofo. Le opere infatti avrebbero dovuto essere solo un invito alla filosofia, non l’esposizione di un sistema o anche solo di alcune soluzioni ai grandi problemi filosofici. Fedele alla linea di pensiero e di condotta del suo maestro Socrate, Platone non avrebbe abbandonato la maieutica, l’arte del far nascere il pensiero nella mente di chi ascolta, nel suo caso di chi legge. Lungi dall’imporre le proprie vedute, il gioco sarebbe stato quello di mettere per scritto alcuni possibili percorsi mentali, affidando ai diversi personaggi i ruoli del maestro (Socrate) e quello dell’allievo più o meno recalcitrante. Nessun mistero quindi, ma solo una sconfitta, quella di essere stato da subito letto come un propositore di tesi e non di metodo. Molto si è dibattuto dagli anni Ottanta intorno alle dottrine non scritte di Platone, che, secondo testimonianze anche aristoteliche (Migliori le raccoglie in una cospicua appendice), avrebbero spostato il pensiero del filosofo dall’aporia del dibattito aperto alle certezze di un primo principio, Uno e Bene, contrapposto alla molteplicità del disordine della materia priva di forma. In questo libro Migliori, da sempre allievo di Giovanni Reale, quindi acceso simpatizzante del valore protologico delle dottrine non scritte, sposta l’attenzione più sul metodo che sul contenuto. Con un rispetto del testo da lui stesso definito “religioso”, riconosce negli scritti il “gioco” descritto nel Fedro, che per necessità rimanda ad altro, a una filosofia che può sorgere solo nel confronto dialettico e non può essere messa su carta (su papiro o pergamena che sia). Le pagine del Fedro hanno sempre costituito una bella sfida per gli storici della filosofia: il primo autore di pagine filosofiche scritte in bello stile, senza la cripticità di un Eraclito detto l’oscuro, o di un Parmenide non in prosa, questi primi scritti adatti al pubblico degli incolti, essoterici quindi, non sarebbero una cosa seria.
Gli scritti servirebbero solo a riportare alla memoria ciò che già si è appreso attraverso il dialogo dialettico con il maestro, non a ricostruirlo in contumacia, per così dire. Sarebbero come le pallide piantine che crescono in poco tempo bagnando direttamente i semi (chi non ha fatto crescere così lenticchie e fagioli alle scuole elementari?): danno l’idea di un prato o una piantagione, ma muoiono in fretta, non diventano mai adulte. Ad Atene si chiamavano “giardini di Adone”, si preparavano nel caldo estivo per ricordare la morte prematura del bellissimo fanciullo. Sono giardini per finta, così come le parole scritte sono logoi “per gioco”, come si legge nel Fedro: «Il gioco davvero bello, in confronto all’altro che non ha valore, è quello invece di giocare con i logoi, narrando racconti (mythoi) sulla giustizia e altri argomenti». Fare, e non subire, la filosofia.