Un po’ datata, ma è una bella intervista. 

Anima e iPad, intervista al filosofo Maurizio Ferraris

“Diversamente da quanto sostenevano i postmoderni, il mondo sociale non è una sfera liquida ed evanescente. Al contrario, è fatto di oggetti come le promesse e le scommesse, il denaro e i passaporti, che spesso possono essere più solidi dei tavoli e delle sedie”. Dopo mesi di dibattito Maurizio Ferraris, autore di Anima e iPad (Guanda) risponde a tutti gli interventi di Affari riguardo al dibattito neo-realista. E anticipa i dibattiti internazionali. INTERVISTA

Lunedì, 10 ottobre 2011 – 08:30:08

di Virginia Perini

Ferraris

Che cosa c’entra l’anima con i’iPad? Niente, direbbe l’occhio distratto di molti. La prima è quella fitta di rimorso che ci avvisa che siamo vivi e coscienti, il secondo è l’assoluto tecnologico del momento. Tuttavia, nel nuovo libro del filosofo Maurizio Ferraris, ANIMA e iPad (Guanda) questa strana coppia ha un’affinità profonda, e la tecnologia, come in un corteo, porta alla ribalta una moltitudine di concetti antichissimi. Quali? Anzitutto la scrittura. Tanto l’anima quanto l’iPad hanno memoria da vendere e sono blocchi su cui leggere, scrivere, archiviare. Questa scrittura, dentro e fuori della mente, è l’origine della coscienza e del mondo sociale. Perché la scrittura è insieme la base della realtà sociale e la base della nostra coscienza e del nostro pensiero, il cui spettro peggiore è proprio l’Alzheimer, la perdita della memoria vissuta come perdita del pensiero. Ecco perché la grande svolta tecnologica che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni ha riguardato proprio la scrittura, e il suo emblema è oggi l’iPad. Anima e iPad sono dunque gemelli. E l’iPad, che quando è spento, con il suo schermo lucido, può servire come specchio per pettinarsi o rifarsi il trucco, quando è acceso, con la sua memoria attivata, diviene letteralmente lo specchio dell’anima. Ferraris spiega ad Affaritaliani.it come parlare di iPad voglia dire parlare non soltanto di un dispositivo tecnologico, ma di noi stessi, della nostra vita, del nostro pensiero, del nostro mondo.

Che cosa c’entra l’anima con l’iPad?

È indubbio che un po’ dell’anima di Steve Jobs sopravvive nell’iPad, inteso sia come il prototipo che aveva progettato, sia come il suo iPad personale, quello che adoperava tutti i giorni. La prima sopravvivenza è quella per cui si dice che le opere riflettono l’anima dei loro autori, ma la seconda è più interessante, perché riguarda tutti noi, che non abbiamo progettato l’iPad e ci limitiamo ad adoperare computer, smartphone, tablet e via registrando. Queste macchine sono essenzialmente memorie, in cui si depongono e conservano tutti i contatti della nostra vita, tutti i pensieri e progetti, e anche le cose che abbiamo dimenticato, che restano lì, come in una specie di inconscio. Bene, queste memorie sono una specie di supplemento d’anima o di anima di scorta, e non c’è niente di sorprendente, se si considera che la rappresentazione tradizionale dell’anima, già presso i Greci, era quella di una tabula, una tavoletta di cera in cui si imprimono discorsi, sensazioni, ragionamenti. Il tablet esterno, l’iPad, è dunque la protesi della tabula interna, ed è la più recente di tutte quelle altre protesi – archivi, documenti, promemoria, libri, appunti – con cui l’umanità ha cercato di rimediare alla finitezza della memoria e soprattutto della vita. Perché fintanto che qualche memoria rimane da qualche parte, fosse pure solo in un iPad, ecco che resta un po’ di anima, mentre se la memoria se ne va si ha un bell’essere vivi, anche l’anima se ne è andata, ed è per questo che l’Alzheimer ci fa tanta paura.

Nessuno si sarebbe aspettato un saggio filosofico sul nuovo gioiellino Apple, considerato da molti come un oggetto tecnologico e niente più. In che modo l’iPad è un tema di rilevanza filosofica?

Più o meno nello stesso modo in cui la mela di Newton è di rilevanza scientifica. Scherzi a parte: la filosofia è una riflessione su quello che c’è, dunque non ci sono temi intrinsecamente filosofici, ci sono piuttosto modi filosofici per svolgere qualunque tema. Dunque l’iPad è di rilevanza filosofica nella misura in cui lo è la memoria, e mi sembra che da Platone a Bergson alle neuroscienze la filosofia abbia avuto qualche interesse in proposito. E nella misura in cui la tecnica è un tema di rilevanza filosofica, e anche qui, da Platone a Heidegger, la filosofia non ha fatto mistero del suo interesse per la tecnica. E nella misura in cui la coscienza è un tema di rilevanza filosofica, e anche qui da Socrate a Searle passando per Cartesio, Kant e Hegel hanno mostrato qualche curiosità in materia. E nella misura in cui il mondo sociale è filosoficamente interessante, come sembra che lo fosse per Aristotele, per Marx e per qualcun altro. E ancora nella misura in cui la sopravvivenza dell’anima dopo la morte ha una qualche rilevanza filosofica… Si potrebbe andare avanti ancora a lungo con questo gioco, ma il senso è questo.

Che cosa è cambiato culturalmente con l’arrivo dell’iPad?

Niente. Semplicemente l’archivio si estende e insieme diventa portatile, si dissemina, la grande biblioteca di Alessandria è sempre con noi… Abbiamo a disposizione molti più testi, molte più registrazioni, e molta meno carta. Nel complesso, è una crescita della cultura, non sono di quelli che vedono nel web una nuova barbarie. Al contrario: in qualunque momento posso avere accesso a testi che non molti anni fa avrei dovuto raggiungere in posti lontani, e che forse non avrei mai letto. Ma l’aspetto più significativo, dal punto di vista filosofico, è il trionfo della scrittura sulla voce. L’iPad è un oggetto che, se fosse apparso anche solo dieci anni fa, sarebbe stato inspiegabile: se hai il telefonino, perché mai dovresti prenderti una cosa molto più grande, e che solo accidentalmente serve per telefonare? Di qui una vera e propria rivelazione della tecnica: molto più che la comunicazione conta la registrazione, perché le comunicazioni non registrate sono parole al vento. Ed è per questo che la tecnologia è evoluta così potentemente come tecnologia della registrazione, sino a darci, con l’iPad, un archivio portatile.

Lei ce l’ha? Lo usa? Quale funzione le piace di più?

No, non ce l’ho, perché avendo l’iPhone e un McBook Air (oltre che un McBook Pro a casa, sono un benemerito della Apple) sarebbe un di più che mi appesantirebbe. Ma l’esperienza che ho voluto descrivere è quella dei supplementi d’anima in generale, cioè appunto delle tabulae, dei documenti, dei libri, dei taccuini, degli automi. Scrivendo che l’anima assomiglia a un libro in cui un interno scrivano annota sensazioni e ragionamenti Platone si riferiva già a questa esperienza, che oggi, nella nostra contingenza storica, si chiama “iPad”, e che ovviamente continuerà ad esistere anche quando il nome “iPad” sarà stato dimenticato da tutti.

Crede che filosofia e filosofi debbano adattarsi ai tempi che cambiano?

Il contrario sarebbe sciocco, non le pare? E non solo sciocco: sarebbe impossibile, visto che nessuno è immune dai tempi in cui vive. Dunque è ovvio che la filosofia, come qualunque attività umana, deve adattarsi ai tempi che cambiano. Il solo problema è capire, in primo luogo, che non necessariamente i tempi cambiano in meglio (dunque “adattarsi” non equivale ad accettare) e, in secondo luogo, che l’adattarsi non deve essere incantarsi, ma cercare di cogliere l’essenziale. Mi spiego. Quando sono apparsi i computer, alcuni filosofi hanno detto che con l’informatica sarebbe scomparsa la fatica, e non mi sembra davvero che le cose siano andate in questo modo, visto che fatichiamo tutto il santo giorno (e spesso parte della notte, in qualunque momento) picchiando sui tasti dei nostri tablet che fanno sì che il lavoro si intrufoli in ogni angolo della nostra vita. Inoltre, molti, filosofi e non filosofi, hanno colto nel trionfo dell’informatica solo l’aspetto della iper-modernità, il che è legittimo anche se banale, ma non hanno considerato gli elementi di continuità profonda con la storia precedente, in particolare il fatto che quello che tornava, a sorpresa, dopo decenni in cui la si dava per agonizzante di fronte alla voce, alla radio, al telefono, alla televisione, era la scrittura, cioè qualcosa di più antico delle piramidi. Se vogliamo, proprio questo è stato il grande insegnamento della nostra attualità: il fatto che si sia dispiegato tutto il potere di una tecnica antichissima, e imparentata con quella risorsa così essenziale della nostra mente che è la memoria.

Abbiamo seguito il dibattito estivo sul nuovo realismo, tutti hanno parlato e si è sentito di tutto. Vuole dire qualcosa al riguardo?

Lei dice benissimo, “tutti hanno parlato e si è sentito di tutto”. Mi limito dunque a una precisazione. Qualcuno ha detto “vorremmo sapere qualcosa di più su questo nuovo realismo”. Ora, prima dell’articolo di giornale da cui è partito il dibattito avevo scritto molti libri in cui svolgo dettagliatamente una filosofia realista. In particolare, Estetica razionale (1997, quest’anno ne è uscita una nuova edizione, con una postfazione che spiega le ragioni della mia svolta realistica, ormai tanti anni fa), Il mondo esterno (2001) e Ricostruire la decostruzione (2010).  Il fatto che il dibattito sia stato così acceso dimostra quanto la questione del realismo, dopo la fine del postmoderno, sia scottante. Ed è per questo che si tornerà a parlarne con calma in un seminario a New York il 7 novembre, poi a Torino il 5 dicembre e infine l’anno prossimo a Bonn, nel convegno che annunciavo nel mio articolo di agosto.

E l’iPad s’inserisce in qualche modo nel discorso sul nuovo realismo?

Si inserisce nella mia proposta filosofica, che appunto è di impianto realistico. In particolare, prosegue una linea di ricerca che ho aperto con Dove sei? Ontologia del telefonino (2005), e che ho proseguito con Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (2009). La tesi di fondo che svolgo in questo filone di analisi è che, diversamente da quanto sostenevano i postmoderni, il mondo sociale non è una sfera liquida ed evanescente. Al contrario, è fatto di oggetti come le promesse e le scommesse, il denaro e i passaporti, che spesso possono essere più solidi dei tavoli e delle sedie, e dai quali dipende tutta la felicità e l’infelicità delle nostre vite. Ne sanno qualcosa, purtroppo, coloro che hanno acceso dei mutui a tasso variabile o si sono giocati in borsa i loro risparmi. Illudersi che questi oggetti siano una fantasmagoria infinitamente interpretabile è rendersi ciechi, e dunque inermi, di fronte al mondo in cui viviamo. Per questo ho formulato una definizione degli oggetti sociali come “iscrizioni di atti”, cioè come la fissazione di rapporti che accedono alla dimensione della oggettività proprio attraverso la registrazione, il che spiega l’importanza dei documenti nel mondo sociale, e il fiorire di strumenti potenti e portatili di archiviazione, come appunto l’iPad.

Qualcuno inserirebbe il suo nuovo libro nel contesto di quella che viene spesso chiamata ‘filosofia pop’. Che cosa pensa di questo fenomeno? Crede che la ‘ricerca della verità’ possa raggiungere le masse attraverso nuovi linguaggi e forme di espressione moderne?

Il termine “masse” non mi piace, è una connotazione intrinsecamente negativa, preferirei parlare di “pubblico”, di curiosi o di studenti, di persone interessate in qualche modo alla cultura. Ora, è ovvio che se si vuole coinvolgere il pubblico bisogna trovare un terreno comune, e questo terreno è dato dalla vita quotidiana, cioè anche dal pop. Dunque ben vengano il pop e la divulgazione, purché non si cada nell’illusione di vederci qualcosa come una avanguardia filosofica. Non lo è, basti pensare che la frase di Warhol sul fatto che saremo tutti famosi per 15 minuti è diventata quasi un proverbio, un detto di saggezza popolare che si tramanda di padre in figlio, tanto è vero che era una delle tracce dei temi di maturità nel giugno scorso.

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