Un cosmo di relazioni tra numeri
La natura si rivela (e si nasconde) nella geometria
Lo scienziato è un decifratore? No, costruisce modelli
di Stefano Gattei (Corriere 26/6/14)
Il mondo è matematico? O per dirla in modo più semplice: le cose che ci circondano e di cui abbiamo esperienza hanno qualcosa a che vedere con la matematica? Per Platone «Dio geometrizza sempre», per Galileo il libro della natura «è scritto in lingua matematica», e con loro molti altri scienziati, nella storia, si sono espressi sulla sorprendente capacità della matematica di descrivere e spiegare il mondo. Il fisico ungherese Eugene Wigner scrisse nel 1960 un celebre articolo intitolato Sull’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali , dichiarando tale capacità «un fatto che ha del misterioso e che non ammette alcuna spiegazione razionale». E prima di lui un altro protagonista della rivoluzione quantistica, Paul Dirac, si era spinto a sostenere che la natura è scritta in lingua matematica elegante: verità e bellezza sono due facce della stessa medaglia.
Che cosa ha a che fare il linguaggio simbolico di una disciplina che viene spesso percepita come astrusa e arbitraria con la descrizione di fenomeni tanto disparati quanto la caduta delle mele, la simmetria di un fiocco di neve, il movimento degli astri, la divisione cellulare, la dinamica delle popolazioni, l’interazione tra specie in un ecosistema?
La questione rimanda al problema di come sia possibile capire il mondo che ci circonda, un problema che affonda le radici nell’antica Grecia. Semplificando molto, potremmo dire che nel pensiero greco si registra l’opposizione di due concezioni, insieme antitetiche e complementari. Da una parte chi (come Eraclito) ha sostenuto che «la natura ama nascondersi», cioè che la natura resiste ai nostri tentativi di comprenderla. Dall’altra chi (come Parmenide) ha affermato l’unità dell’essere e il potere del logos. In questo senso, come ha sostenuto Karl Popper, Parmenide fu il primo filosofo razionalista: il logos, infatti, è sia la parola sia il ragionamento; ricorrere al logos significa argomentare secondo ragione, discutere soppesando le varie possibilità, circoscrivere discorsivamente la verità per stanarla. Nel pensiero greco, tuttavia, a questa concezione, «socratica», se ne collega un’altra, «pitagorica», secondo cui l’universo è numero e armonia. Quest’ultima viene raccolta da Platone, che si dice avesse posto all’ingresso dell’Accademia il motto: «Non entri chi non conosce la geometria».
Le grandi correnti del platonismo e del pitagorismo — in seguito, più propriamente, del neoplatonismo e del neopitagorismo — hanno influenzato in modo determinante la cultura occidentale. Incidono profondamente su Aristotele (che cerca di confutarle), sono alla base delle idee degli Elementi di Euclide e del successivo commento di Proclo, costituiscono la matrice comune dello gnosticismo e del cristianesimo primitivo. Poi sembrano sparire per quasi un millennio, ma in realtà non vengono mai meno, sopravvivendo nel pensiero cabalistico e nella tradizione alchemica, per riemergere con forza nell’ermetismo rinascimentale. L’aspetto quantitativo e sperimentale della scienza moderna è distante da questa concezione, ma la lettura che ne opera la scienza galileiana le consente di conservarsi virtualmente inalterata per quasi tre secoli, fino all’inizio del Novecento, costituendo una dei cardini su cui si fonda la fisica classica, da Newton a Einstein.
Da questa prospettiva, nell’indagine dell’universo fisico alla matematica spetta un ruolo privilegiato, che non si limita a essere descrittivo, ma riflette precise convinzioni ontologiche: il libro della natura è, almeno in linea di principio, completamente decifrabile dal «filosofo-geometra» (come lo chiama Galileo) che padroneggi la lingua nel quale è scritto, nello stesso modo in cui un messaggio in codice viene decrittato una volta che ne sia nota la chiave.
La «leggibilità (matematica) del mondo» — per usare una felice espressione di Hans Blumenberg — è l’assunto fondamentale su cui hanno poggiato per tre secoli tutte le filosofie naturali incentrate sul meccanicismo e sul determinismo, un assunto che il Positivismo ha esteso ben oltre l’ambito della fisica, fino a includere i fenomeni sociali, economici e politici. Aderendo a tale concezione, non ci si limita a sostenere che il mondo è matematico, ma si afferma che lo è in modo unico e completo: non si ammettono descrizioni matematiche egualmente valide ma non coincidenti, né si ammettono (se non per provvisoria ignoranza) descrizioni matematiche parziali.
La domanda da cui abbiamo preso le mosse ci pone allora di fronte a un bivio: se rispondiamo di sì (il mondo è matematico), dobbiamo abbracciare la concezione platonico-pitagorica, riveduta e corretta in chiave galileiana. In caso contrario siamo costretti ad abbandonare ogni speranza di comprendere e spiegare la realtà in modo razionale.
Ma davvero non c’è altra possibilità? È proprio necessario che il cosmo sia opera di un grande orologiaio o di un sommo geometra, e che esista un libro della natura (o anche un’intera biblioteca di libri della natura) per dare conto del potere esplicativo della matematica? Forse no. A ben guardare, infatti, la consequenzialità che la concezione platonico-pitagorica vorrebbe stabilire tra intelligibilità del mondo e univocità delle descrizioni matematiche non sussiste. L’«irragionevole efficacia» della matematica è spiegabile in modo più semplice, sostituendo all’idea del filosofo-geometra, del decifratore, l’idea molto più modesta del matematico apprendista di verità, inventore di soluzioni ingegnose ma provvisorie, umile costruttore di modelli.
Per quanto a molti possa sembrare paradossale, la matematica non studia oggetti (numeri, o figure geometriche), ma relazioni tra oggetti. La matematica si occupa di strutture: scopre rapporti, costruisce ponti tra ambiti prima considerati separati, ne controlla la solidità. Lo fa ricorrendo all’analogia, così come lo scrittore e il poeta fanno appello alla metafora, o l’artista a nuove tecniche o alla contaminazione fra tecniche diverse.
Ma se l’oggetto di studio della matematica sono le relazioni, non abbiamo ragione di credere che vi sia un modo unico di esprimerle, né di ritenere che le strutture che individuiamo colgano in qualche modo l’essenza ultima del mondo che ci circonda. Con maggiore consapevolezza epistemologica (e modestia filosofica) rispetto al passato, possiamo oggi dire che nessuno è il depositario della chiave universale per decifrare la realtà, nemmeno i matematici. Come ha osservato André Weil, la matematica è solo uno dei tanti specchi in cui si riflette la verità, anche se forse con più purezza che non in altri specchi.