Tutte le #strade le ha tracciate #Roma
L’effetto sull’ #economia
Il successo corre lungo le strade dell’antica Roma
Uno studio danese fotografa la relazione tra antiche vie latine e sviluppo economico
Un’ambizione imperiale cui oggi aspira la Cina
di Danilo Taino (Corriere 10/8/18)
L’attuale sviluppo economico — ultimo caso la Via della Seta, architrave della politica del presidente cinese Xi Jinping — ha radici lontane: 2 mila anni. Uno studio danese ha infatti dimostrato che «c’è maggiore attività economica in luoghi dove è maggiore la densità di strade romane».
Q uando la geografia, la geopolitica e gli spiriti egemonici tornano a fare la storia, trascinano con sé le grandi opere. Sempre. Sin dai tempi dell’antica Roma.
Non poteva che essere così anche oggi: la discussione del momento è sul grande, nuovo progetto di Via della Seta lanciato dal governo cinese. Il nome corretto è Belt and Road Initiative , prevede investimenti superiori ai mille miliardi di dollari per creare strade, ferrovie, porti, aeroporti, centrali elettriche e nucleari, centri di scambio merci, gasdotti e oleodotti in 78 Paesi di Asia, Europa e Africa. È l’architrave sul quale la Cina di Xi Jinping intende estendere la propria egemonia sull’intera Eurasia.
Al di là della volontà di potenza di Pechino — che preoccupa sia l’America sia l’Europa — è interessante chiedersi quale sarà l’effetto di sviluppo nel tempo di questo immenso piano infrastrutturale. Il quotidiano Washington Post ha raccontato di un lavoro che il professor Carl-Johan Dalgaard e la sua équipe conducono da anni all’Università di Copenaghen per capire se c’è una relazione tra la rete stradale del passato, in particolare quella costruita dagli antichi romani, e lo sviluppo delle aree toccate da questa ragnatela, che nel secondo secolo dopo Cristo arrivò a estendersi per più di 80 mila chilometri, tra Italia, Europa, Vicino Oriente e Nord Africa.
Non solo per verificare la convinzione diffusa che le strade favoriscono lo sviluppo ma anche per dimostrare che hanno effetti di lunga durata: quelle dei romani di duemila anni fa influenzano ancora l’oggi.
Dalgaard ha dunque sovrapposto la rete di strade romane (individuando la Via Appia del 312 avanti Cristo come il modello iniziale) a una serie di indicatori della prosperità odierna: densità della popolazione, reti infrastrutturali e soprattutto l’illuminazione notturna fotografata dai satelliti.
I ricercatori di Copenaghen hanno poi elaborato una serie di dati e hanno stabilito che «c’è maggiore attività economica in luoghi con maggiore densità di strade romane». C’è insomma una «persistenza» dell’investimento di duemila anni fa. «La persistenza negli investimenti infrastrutturali è una fonte potenziale di persistenza nello sviluppo comparativo», sostiene Dalgaard. E «la densità di strade romane è in genere un forte previsore dell’attività economica contemporanea».
Che l’infrastruttura degli antichi romani abbia aiutato lo sviluppo di ampie regioni è in effetti molto probabile. Che ne sia la causa è più difficile da stabilire: di certo, non è l’unica e forse nemmeno la più importante. Le istituzioni economiche e politiche che sono seguite nei secoli, in particolare dall’Ottocento in poi in Europa, hanno sicuramente giocato un ruolo decisivo. Tanto è vero che la relazione tra strade romane e attività economica è, rispetto all’Europa, meno forte nell’Africa del Nord e nel Vicino Oriente, dove queste istituzioni non si sono sviluppate.
È interessante il fatto che i romani non costruirono la rete stradale tanto per motivi economici quanto per ragioni militari, per fare muovere mezzi e legioni, a cominciare proprio dalla Via Appia. Lo stesso spirito muove, in buona misura, la Via della Seta cinese oggi: un’iniziativa infrastrutturale che è però guidata da ragioni politiche di egemonia, dall’obiettivo di sostituire la Pax Americana con una Pax Sinica, così come duemila anni fa il mondo viveva nella Pax Romana. Un nuovo ordine mondiale non più atlantico ma eurasiatico.
Le strade studiate dai ricercatori danesi andavano da Occidente a Oriente. Nei secoli successivi, altre se ne aprirono, via terra e via mare, per collegare l’Europa e l’Asia.
Oggi è la Belt and Road Initiative a candidarsi come l’unificatore infrastrutturale del supercontinente che va dall’Atlantico al Pacifico. In teoria, ha la potenzialità di aiutare lo sviluppo di grandi regioni, nell’Asia centrale e nel Medio Oriente, forse persino in Siberia, così come le strade romane hanno sostenuto il diffondersi dei commerci al di là dei loro scopi militari.
Il punto debole della nuova Via della Seta cinese è che ha nel dna impronte imperiali oggi difficili da fare accettare: va da Est a Ovest a senso unico, diretta da Pechino con il resto dei Paesi interessati dal progetto in posizione subordinata (soprattutto ai prestiti dei fondi di Stato cinesi). E provoca tensioni e opposizioni.
In Pakistan, per dire, dove il vecchio governo si è troppo indebitato con Pechino per costruire il porto di Gwadar. Nello Sri Lanka, dove lo Stato non è in grado di ripagare i finanziamenti cinesi e dunque Pechino si è appropriata, per i prossimi 99 anni, del porto di Hambantota. E così sta succedendo in alcuni Paesi africani e dell’Est europeo.
Forse, tra duemila anni, studiosi danesi rileveranno che le infrastrutture costruite oggi con i denari di Pechino hanno giocato un ruolo nello sviluppo di alcune regioni. Senza le istituzioni civili e politiche e senza le regole che hanno permesso lo sviluppo dell’Occidente, è però improbabile che scoprano che quelle economie hanno raggiunto risultati eclatanti. Che parta da Roma o da Pechino, una strada non basta.