#Tucidide tra i #Curdi
Nel famoso dialogo con i #Meli, gli #Ateniesi danno lezione di realismo
Ma anche in politica non contano sempre e solo l’interesse e le armi
Le riflessioni del grande autore greco mettono in risalto questioni di scottante attualità.
Ci aiutano a capire meglio l’impotenza dell’Onu, così come le ragioni degli eroici difensori di Kobane che non si sono piegati alla legge del più forte
di Mauro Bonazzi (Corriere La Lettura 13/12/15)
Nell’ Iliade Omero racconta del troiano Licaone, un giovane non molto fortunato. Mentre si preparava per la guerra, era stato rapito da Achille e venduto come schiavo. Liberato, era subito tornato sul campo di battaglia. Dove aveva incontrato di nuovo Achille. E la morte, perché questo aveva deciso l’eroe: a nulla servirono le lacrime. La forza comanda. I poeti greci non si facevano troppe illusioni, ed è per questo che chi s’interroga sulla natura del potere farebbe bene a meditare sulle loro storie. Bisognerebbe sempre ricordarsi di Licaone. Sicuramente se ne ricordò Tucidide, quando raccontò della spedizione degli Ateniesi a Melo.
Melo è un’isoletta dell’Egeo di nessun valore strategico. Ma nel 416 a.C. gli Ateniesi avevano deciso che era necessario esercitare un controllo totale su tutti i porti dell’Egeo. È la solita strategia delle potenze navali; ed era la fine dell’indipendenza dei Meli. Ci potrebbe essere storia più scontata e banale? Prima, però, gli Ateniesi propongono di risolvere il problema a parole, discutendo, ed è qui il colpo di genio di Tucidide. L’esito della vicenda è già scritto, per gli Ateniesi non ci sono dubbi: comunque vada, Melo perderà la sua indipendenza e diventerà loro «alleata». L’obiettivo degli Ateniesi è dunque un altro: spiegare ai Meli che non può che essere così, che è inevitabile e in fondo giusto. È una lezione, insomma, quella che gli Ateniesi vogliono impartire, mossa da spirito di umanità: imparando, i Meli eviteranno la sorte di Licaone. Un episodio marginale assurge così a paradigma dell’eterno problema del potere. Ma saranno dei bravi allievi, i Meli?
Sicuramente gli Ateniesi sono insegnanti pazienti. Perché i Meli danno spesso prova di una ingenuità sconfortante, come quando invitano gli Ateniesi a rispettare diritto e giustizia; o quando sperano nell’intervento di improbabili alleati, ad esempio gli Spartani. La risposta è severa ma illuminante: cosa c’entra la giustizia? In politica non si discute di cosa sia giusto o no; si discute di come stanno le cose, non di come si vorrebbe che andassero. Perché due sono le cose che contano, l’interesse e la forza. Tutti perseguono degli interessi, ma non tutti gli interessi sono realizzabili. Per realizzarli serve la forza. È come una legge scientifica: tutti cercano di affermarsi e ognuno ottiene quello che le sue forze gli permettono di ottenere. Basta quindi un calcolo per capire cosa si può fare e cosa no. La politica si risolve nella matematica.
Del resto, la proposta è ragionevole: non sembra, ma gli Ateniesi sono equanimi. Diversamente da Achille, riconoscono che anche i Meli hanno degli interessi. Propongono un’alleanza, quando potrebbero prendersi tutto. In cambio chiedono solo che i Meli imparino a guardare la realtà in faccia. Anche gli altri pensano al proprio interesse: come gli Spartani, che non hanno nessuna convenienza a esporsi per un’isoletta senza importanza. Quanto alla fantomatica esistenza del diritto o di parti terze e indipendenti, non vale neppure la pena di rispondere.
Sarebbe interessante sentire il parere degli Ateniesi sulle vicende nostrane. Su quanto conti la giustizia nelle risoluzioni prese in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ad esempio. O sull’attenzione intermittente dell’Unione europea per l’integrità dei confini ucraini: molto maggiore d’estate, quando il problema energetico del gas non è pressante come in inverno.
Questi sono gli uomini, questa è la realtà. I Meli devono guardare dentro se stessi, ammettere che sono come gli altri e capire che il loro caso non ha nulla di eccezionale, che è la manifestazione di una legge universale. E poi cedere. Ma i Meli rifiutano. Perché? Come interpretare il rifiuto? Per gli Ateniesi è il banale errore di calcolo di un cattivo studente. Come tutti, così i Meli cercano il loro interesse. Ma non hanno saputo valutare in modo corretto i rapporti di forza. Si sono illusi, hanno preteso troppo e per questo pagheranno. Ma questa non è l’unica spiegazione possibile.
E se i Meli avessero capito? E se avessero voluto impartire a loro volta un insegnamento? I Meli sanno bene che gli Ateniesi sono più forti, mettono in conto di essere distrutti. Eppure resistono: perché la resistenza non è solo militare, è anche intellettuale, e riguarda la presunta verità di cui gli Ateniesi sarebbero detentori. I Meli perderanno ma non si piegano all’idea che nel mondo contano solo forza e interesse. Tucidide tace, ma anche questa è una possibilità. Una possibilità gravida di conseguenze, perché smaschera la presunta oggettività del realismo degli Ateniesi, rivelandolo per quello che è: un discorso volto a giustificare il punto di vista dei forti, un discorso che offre ai deboli una scusa per la loro sottomissione. Il rifiuto dei Meli assume così il valore della testimonianza di un altro punto di vista sulla realtà dell’uomo, che non è, o non è soltanto, brama di potere. I Meli: l’eccezione che non conferma la regola. La realtà non è quella descritta dagli Ateniesi. Magari gli uomini possono essere altro; a volte lo sono pure. Ed è per questa idea che vale la pena di rischiare, persino di morire.
In effetti, non sempre le cose vanno come dicono gli Ateniesi. Non sempre siamo soli e non sempre contano solo interesse e forza. I Meli, è vero, hanno scrutato invano quel mare e quel cielo così azzurri senza che nessuna divinità o nessuna flotta apparissero in loro soccorso. Ma altre volte qualcosa succede. Quando il cielo era terso, anche il partigiano Johnny guardava in alto in attesa della sua capricciosa divinità, Alexander, il generale delle forze alleate. Alla fine gli aerei arrivarono. Oltre Manica, nel 1940, dal cielo piovevano solo bombe, ma non per questo gli inglesi accettarono di trattare con Hitler. Alla fine i nazisti furono sconfitti. I partigiani e gli alleati combattevano per interesse, per spirito di sopravvivenza, certo. Ma non solo: un’altra Europa è sorta dalle macerie di quella guerra.
In questi giorni anche sugli altipiani mediorientali il cielo è spesso limpido. E il pensiero corre ai guerriglieri curdi che a Kobane si sono opposti alla barbarie in una condizione di minorità. Anche loro guardavano il cielo in attesa di qualche apparizione. Hanno resistito e tuttora continuano a combattere. Perché? Per cosa? Per una patria, certo, e dunque per il loro interesse, in un contesto dove il groviglio degli interessi è quasi impossibile da sgarbugliare. Ma è solo interesse quello che li muove? Si è molto parlato delle donne curde che hanno scelto di combattere al fianco dei loro uomini. È solo per patriottismo che hanno impugnato i fucili, o è anche in difesa di un’altra idea di società e di donna (e di islam visto che queste soldatesse sono musulmane)? Ciò che siamo non è determinato necessariamente una volta per tutte dalle leggi di natura; siamo noi con i nostri pensieri e le nostre azioni che determineremo cosa siamo. Spesso ci comportiamo come bestie, ma non è detto che lo siamo. Anzi. Anche i Meli, i tanti Meli che calcano le scene della storia, hanno una lezione da insegnare. Sarà quella giusta?