Un testo di #LucianoCanfora sul primo imperatore
#Augusto, il camaleonte spietato che si fece adorare dai Romani
di Giovanni Brizzi (Corriere 20/3/15)
L ibro ricchissimo, complesso e affascinante, Augusto figlio di Dio di Luciano Canfora (Laterza, pp. 567, e 24); che tratta di due non dirò eroi (l’autore, in una delle tante sue felicissime formule, ricorda come quella del periodo sia inevitabilmente, in Appiano, una «storia pragmatica e senza “eroi”, che “va al fondo delle cose”»), ma certo figure di riferimento per l’età delle guerre civili a Roma. Il primo in maniera solo indiretta, trattandosi di quell’Appiano che, circa due secoli dopo i fatti narrati, ha lasciato il resoconto più completo e prezioso degli anni fondamentali successivi alla morte di Cesare. L’altro, Ottaviano poi Augusto, protagonista vero, solo vincitore e (come proprio Appiano sottolinea) creatore del successivo regime monarchico.
Dopo aver fatto la storia dell’autore greco e del suo testo, a lungo dimenticati e talvolta sottovalutati ancor oggi, Canfora affronta, di Appiano, il metodo di lavoro; e rivela come questo «parassita» — così lo ha definito Giuseppe Giusto Scaligero —, il fucus che dei lavori altrui riporta, traducendole ad uso di un pubblico eminentemente greco, intere porzioni, abbia in realtà saputo scegliere assai bene le sue fonti, affidandosi, oltre che a Timagene, il discusso alessandrino suo conterraneo, a due opere preziosissime per noi perdute, le Historiae ab initio bellorum civilium di Seneca padre e i Commentarii de vita sua , le cosiddette Memorie di Augusto. La prima, che nel titolo stesso cercava un initium all’interminabile conflitto civile, risalendo fino ai prodromi graccani, era, su quei fatti, la fonte forse migliore e più indipendente; l’altra restituiva le preziose note personali del primo imperatore. Opere di segno opposto, dunque, che — pur non riuscendo sempre a conciliare — Appiano maneggia però con qualche attenzione critica.
Ma, per venire alla figura del secondo, gigantesco personaggio, e cioè di Augusto, occorre ora accennare al metodo non di Appiano, bensì di Canfora stesso, capace di un prodigioso (e oggi impensabile quasi per tutti…) lavoro di Quellenforschung , di paziente recupero storiografico. Per usare le sue stesse parole, si dovrà rinunciare «al vezzo di mescolare i dati delle fonti onde creare un (fittizio) racconto di “sintesi” anziché cercare di farle parlare distintamente, capirne le differenze ed eventualmente coglierne la consapevole contrapposizione». Proprio così si muove Canfora, sottoponendo il testo di Appiano ad un paziente confronto incrociato con ogni altro autore alternativo della letteratura antica, Dione e Velleio, Plutarco e Svetonio, i poeti augustei e l’infinito epistolario di Cicerone; e, grazie alle sue smisurate conoscenze, giunge non solo a proporre ipotesi acute e sempre puntuali circa l’origine degli asserti appianei, ma anche a far emergere un Augusto almeno in parte inedito; e, direi, talvolta quasi inatteso (come nel rapporto con Cicerone, forse davvero abbandonato al suo destino obtorto collo e non senza rammarichi…).
Del vincitore di Azio, Canfora viene costruendo un profilo complesso e affascinante nella sua fosca grandezza. Capace dei più acrobatici equilibrismi politici, poi giustificati sempre con estrema disinvoltura dialettica; pronto a piegarsi come un giunco, assecondando le situazioni, per riemergere ogni volta; spietato con gli avversari, della cui morte non esita a sincerarsi di persona; gelido e razionale sempre, persino con gli amici; mai esente da calcolo, Ottaviano Augusto — il «camaleonte», secondo l’azzeccata definizione che ne dà l’imperatore Giuliano — è, ben più del padre adottivo Cesare, il politico perfetto, capace di concepir la finezza di «“restaurare” la Repubblica nell’atto stesso di seppellirla per sempre» sotto il nuovo regime.
«Le analogie sono diagnosi compendiarie», osserva infine Canfora, proponendo un suggestivo raffronto tra la mummia di Lenin nel mausoleo sulla Piazza Rossa e il sidus Iulium , la cometa apparsa in morte di Cesare che fa di Ottaviano il Divi filius , anticipando non tanto il titolo di Augustus , quanto l’altro e più compromettente, il greco Sebastòs , «colui che deve essere adorato». È il preludio alla nascita del formidabile impianto ideologico che farà definitivamente di lui il «figlio di Dio», impianto e modello del quale resteranno ostaggi a lungo i successori.