#Angeli #digitali sanno interpretare ogni nostro desiderio
FABIO SINDICI, La Stampa, 15/2/17
Troppo umani. Quasi magici. Dalle voci flautate e dai corpi eterei. Ecco gli assistenti virtuali del prossimo futuro. Efficienti e agili, in grado di muoversi tra archivi elettronici, realtà aumentate, ingorghi di traffico maledettamente concreti. Modellati da un algoritmo sui nostri bisogni e desideri. Anche quelli che non sapevamo di avere.
Proviamo ad aprire la scena sulla passeggiata di un turista occidentale tra le strade di una Tokyo a venire. Se è un uomo, potrebbe invocare il suo «Ipa» («Intelligent personal assistant») sotto forma di una fata, come la Thrilly di Peter Pan – magari con il volto e il corpo di Julia Roberts – che gli svolazza intorno, lo conduce a destinazione nel labirinto delle strade, gli traduce gli ideogrammi e, di fronte a un ristorante di sushi, gli legge le recensioni di TripAdvisor. Se è una donna, potrebbe dargli le sembianze di un gentleman d’altri tempi che la conduca per mano – virtualmente – tra la ressa, sappia tutto di shopping, la guidi da un parrucchiere alla moda. I nostri turisti potrebbero parlare con i compagni di viaggio attraverso un sistema microscopico di cuffie e microfoni. Potrebbero vederli attraverso occhiali speciali, evoluzione dei Google glass. O grazie a lenti a contatto che incorporano nano-circuiti.
Se i nostri turisti sono immaginari, i loro assistenti lo sono meno. Gli assistenti virtuali sono già tra noi. Da Alexa, il software di Amazon, in grado di gestire migliaia di «skill», come vengono definite le applicazioni, a Cortana di Microsoft, Siri di Apple, M di Facebook, la Nina sviluppata da Nuance, con un’interfaccia vocale più sciolta di un’operatrice di call center. Sono voci senza corpo. Al massimo, un’icona. Ma capaci di prenotare un volo e consigliare un libro. Adattabili a vari compiti, dalle informazioni bancarie al controllo della dieta.
Un tipo di chatbot
Gli «smart agent», come pure vengono chiamati, sono un tipo speciale di chatbot, robot conversatori, programmi studiati per dialogare – non solo verbalmente – con gli umani. L’antenato è Eliza, sviluppato dal Mit di Boston nel 1966. E oggi i chatbot sono più di 10 mila. Non tutti di servizio, come Alexa o Nina. Microsoft ha lanciato Tay, una chatbot femminile: icona dalle labbra sensuali, con tanto di account Twitter. Dopo qualche chiacchiera con maleducatissimi troll, ha cominciato a mitragliare frasi sessiste e razziste. Fino a quando i vertici di Redmond non l’hanno dovuta ritirare, con tante scuse.
I chatbot che parlano troppo con gli umani possono diventare strani, in effetti. Il loro software è progettato per imparare dalla relazione con noi. Ma accade che molti di questi assistenti elettronici, soprattutto nella versione femminile, si trovino a rispondere a domande imbarazzanti. «Buona parte delle prime richieste a Cortana vertevano sulla sua vita sessuale», ha raccontato Deborah Harrison, una delle programmatrici. Ma se Cortana è freddina, Alexa arriva a flirtare con gli interlocutori. Siri, in risposta ai lamenti di astinenza sessuale di un utente, ha rintracciato le più vicine agenzie di escort.
Miliardi di dollari
Si tratta sempre di voci incorporee, però, anche se tutti i big digitali puntano sul futuro degli assistenti virtuali. «Sono le nuove app», sostiene l’ad di Microsoft Satya Nadella. Un mercato potenziale da 50 miliardi di dollari. Dopo che Mark Zuckerberg ha installato il maggiordomo virtuale Jarvis, nella sua villa di Palo Alto, la sfida è creare un super-assistente che gestisca la vita: dalla domotica all’auto, dai meeting di lavoro ai servizi esterni.
Ora Dag Kittlaus e Adam Cheyer – i papà di Siri – perfezionano Viv, assistente di nuova generazione in grado di integrare molteplici app in una sola conversazione. In futuro, poi, i bot si scambieranno informazioni tra loro. E gli assistenti saranno sempre più personali. Già oggi è possibile fabbricarsi un virtual assistant attraverso diverse piattaforme, come quella dell’Università di Chicago, dove è stato creato un open source per assemblare Sirius, molto simile a Siri. Intanto ricercatori di società come Affectiva ed Emotient stanno mettendo a punto sistemi che permetteranno a software evoluti di leggere le emozioni umane.
Il futurologo Nova Spivack ritiene che passeremo sempre più tempo con intelligenze artificiali che sapranno sempre più delle nostre vite. E che dialogheremo con loro con impianti cerebrali entro il 2050. Questi sono già una realtà in campo clinico: «Elettrodi inseriti nella corteccia motoria permettono di “estrarre” la volontà e dare dei comandi a un robot. Vengono usati con pazienti con disabilità gravi», racconta Silvestro Micera, a capo del team di ingegneria neurale dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore di Sant’Anna, a Pisa. Un giorno potranno essere impiantati su una persona sana e dialogare con un software intelligente?
Dilemmi etici
«Si tratta di interventi chirurgici. Difficili pensarli su un individuo sano. Ci sarebbero problemi etici». Che non sono pochi. I nostri fantasmatici assistenti potrebbero essere hackerati. Se manipolati, diventare un mostruoso strumento di controllo sociale. Nel film «Her» il sistema operativo Samantha fruga tra le email di Joaquim Phoenix come una fidanzata curiosa. La sottile linea rossa, forse, sarà attraversata il giorno in cui la nostra fata virtuale passerà dal riservarci un tavolo con vista al ristorante all’organizzazione di una festa a sorpresa.
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Paolo Dario, direttore dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore di Sant’Anna: «Poi ci vorrà un corpo: serve anche per pensare»
«Se non hanno corpo, mi è difficile chiamarli robot. Per definizione sono un’entità fisica». Paolo Dario, direttore dell’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ha qualche perplessità su assistenti virtuali, chatbot e software di reti neurali che mimano il linguaggio umano. «Studi recenti mettono in relazione la nascita del linguaggio all’esperienza di un corpo e alla percezione sensoriale. Il linguaggio umano, almeno. La comunicazione di persone con intelligenze artificiali disincarnate, che siano voci o ologrammi, si trova di fronte una barriera, se si va oltre il livello di base», ragiona il professore di ingegneria biomedica, che il prossimo giugno, a Singapore, in occasione della «International Conference on Robotics and Automation», riceverà un premio per l’attività pioneristica nell’integrare la robotica con la biologia e la medicina.
Professore, dare un corpo a intelligenze artificiali evolute aiuterebbe il dialogo tra l’uomo e la macchina?
«Credo sia essenziale. Per questo, nel caso di robot domestici, è importante costruire automi “morbidi” e amichevoli. Per me l’ideale è un robot di 40 chili che possa sollevare il proprio peso. E non dev’essere geniale. Il suo scopo è aiutare in faccende pratiche, come portare la spesa di un disabile, non discutere di filosofia».
Il robot di compagnia è un’illusione?
«Per la compagnia preferisco gli amici. Certo, c’è chi parla con Roomba, utile robot aspirapolvere. O crea legami affettivi con lo smartphone. Anche le auto, d’altra parte, diventano intelligenti».
Qual è il suo robot ideale?
«Non un umanoide da sfidare a scacchi o a Go. Mi piacerebbe costruire un robot capace di danzare. Ci aiuterebbe a capire come funziona il corpo umano e come poterlo riparare».
[F. S.]