Prima «volta» della Grecia
Riconosciuti nel Peloponneso edifici eretti con l’antica tecnica dei mattoni affiancati uno all’altro senza usare centine risalenti al primo secolo d.C.
di Cinzia Dal Maso (Il Sole Domenica 18/5/14)
È proprio una bella scoperta, quella dell’architetto Paolo Vitti tra le antichità del Peloponneso. Anzi bellissima perché non è frutto di faticosa indagine nella terra o tra archivi o magazzini, ma unicamente della sublime arte di guardare. Vitti ha saputo osservare quel che era lì da sempre, agli occhi di tutti, ma nessuno in realtà aveva visto veramente, e cioè che in diversi luoghi del Peloponneso, verso la metà del primo secolo d.C., si costruirono edifici eccezionali, dall’architettura ardita e raffinata come raramente accadeva laggiù. Un’architettura che mescolava stili diversi e produsse una grandiosa invenzione: la volta a mattoni affiancati. Invenzione eccezionale e unica, se si pensa che generalmente nel mondo romano le novità in fatto di tecniche costruttive nascevano a Roma e poi si diffondevano per l’impero. E invenzione dalla lunga fortuna, come vedremo.
Capiamo innanzitutto che cos’è. I romani, si sa, costruirono per primi delle cupole enormi perché seppero usare il cemento: il Pantheon a Roma, e prima di lui le terme di Baia o di Pompei, videro la luce solo grazie all’arditissimo impiego del conglomerato cementizio. Che fare, però, dove i terreni vulcanici scarseggiano, e invece abbonda l’argilla? Beh, si fanno i mattoni, si dirà, e la risposta è corretta. Peccato però che fino a ieri si credesse che i mattoni cotti fossero ignoti all’Italia romana prima dell’epoca di Augusto o persino oltre. Solo perché non si era letto bene il grande Vitruvio che in un suo passo parla addirittura di diversi tipi di mattoni tra i quali uno rettangolare detto lidion, «quello che usiamo noi» dice. Noi chi? Se diamo retta alle voci che vogliono Vitruvio nativo di Verona, e ai recenti studi degli archeologi in loco, vediamo che in realtà nel Nordest di allora si usava abitualmente il lidion, e comunque in zona si conoscevano i mattoni cotti almeno dal III secolo a.C., come testimoniano le antiche mura di Ravenna.
Nel Peloponneso si faceva altrettanto, e inoltre laggiù qualcuno aveva anche appreso l’antica tecnica orientale di costruire le volte affiancando un mattone all’altro così che l’uno poggia sull’altro e non serve usare la centina. Una tecnica raffinatissima, usata in oriente ancora oggi perché fa risparmiare tempo e fatiche sia rispetto alla volta in cemento che a quella a mattoni sovrapposti, entrambe bisognose della centina. Nel Peloponneso compare per la prima volta nella Grande aula di Argo che, all’occhio attento di Vitti, si rivela un piccolo-grande capolavoro: mescola infatti con grande sapienza i laterizi al cemento, conferendo così alla struttura eleganza, rapidità e versatilità nell’esecuzione, ma anche grande solidità. La sua volta “mista”, poi, fece scuola diffondendosi in tutta la regione, sia in grandi edifici termali come a Thouria, che in tombe private come a Patrasso, o nelle volte degli acquedotti come a Corinto. La Grande aula di Argo è insomma un’opera degna della mano di un grandissimo architetto. Uno troppo bravo per essere un semplice provinciale, pensa Vitti che in realtà ha una sua idea, non proprio sulla persona ma sull’ambiente che produsse questa grande architettura.
Innanzitutto, è bene ricordare che il Peloponneso fu oggetto di attenzione prima da parte di Cesare, che riportò in auge le sue città con grandi investimenti e creò colonie per i veterani, e poi di Augusto che consolidò la presenza romana su tutto il territorio con la costruzione di nuove strade e fattorie. Ma fiorì particolarmente con Nerone che, come sappiamo, proclamò la libertà dei greci mentre dava avvio al taglio dell’istmo di Corinto (poi non realizzato). Oltre a ciò, dice Vitti, Nerone ha fatto sicuramente molto altro nei lunghi mesi che trascorse laggiù, perché un edificio come quello di Argo può essere stato realizzato solo per volere di un imperatore. Dunque egli portò ad Argo suoi architetti, forse romani e orientali, oppure romani che seppero studiare le abitudini orientali del luogo: sicuramente, geniali.
La nuova volta era però troppo bella per morire nel Peloponneso, e infatti col crescere della parte orientale dell’impero migrò in Asia Minore dove si diffuse sempre più fino a trionfare nelle grandi chiese bizantine del VI secolo: a Efeso, Sardi, Ierapoli, e soprattutto a Sant’Irene e Santa Sofia di Costantinopoli. Il protagonismo delle cupole e delle volte a vela delle chiese bizantine trovò nella tecnica a mattoni affiancati un alleato potentissimo. E l’imperatore Giustiniano fu il suo paladino. Anche in occidente: pare che, grazie a Giustiniano, tali volte abbiano finalmente fatto il loro ingresso a Roma, nell’urbe. Sono di mattoni affiancati, infatti, alcune volte tra le torri della cinta muraria romana che abitualmente si attribuiscono al restauro effettuato da Onorio dopo il sacco di Roma dei Vandali. Ma Onorio non poteva conoscere quella tecnica così particolare: per Vitti è assai probabile che quelle volte siano opera delle armate bizantine ai tempi della guerra greco-gotica. Ed è probabile che qualcosa di quella tecnica sia rimasta nelle nostre terre, se compare a secoli di distanza in alcune chiese romaniche, specie in Lombardia. Le vie percorse per giungere così lontano nel tempo, saranno oggetto di prossimi studi. Intanto però Vitti ha vinto il premio per la ricerca di Europa Nostra: perché la sua è una storia “di provincia” che diventa insolitamente una grande storia. E perché, aggiungiamo noi, è una bella storia “euromediterranea”.