L’età dell’ #angoscia a #Roma dopo #MarcoAurelio

ALESSANDRO BARBERO (Stampa, 10/3/17)

Nell’ormai lontano 1996, il ministero della Pubblica Istruzione decretò che l’età dei Severi, la dinastia che governò l’impero romano dopo la morte di Marco Aurelio, avrebbe rappresentato d’ora in poi una cesura storica decisiva. Nei programmi delle scuole superiori, dal classico agli istituti tecnici, il primo anno doveva coprire il periodo dalla preistoria fino ai primi due secoli dell’impero romano, mentre il secondo anno era così concepito: «Dall’età dei Severi alla metà del XIV secolo». Per decreto del ministro Berlinguer, una dinastia finora nota solo agli specialisti s’imponeva tutt’a un tratto alla ribalta delle aule liceali e dell’editoria scolastica.

Senza dubbio fra i Severi non mancano le figure pittoresche. Il fondatore, il terrificante Settimio Severo, grande generale e despota feroce, era di origine africana, il che ne fa un idolo della black history e ispira siti web in cui si discute seriamente il fondamentale contributo dei neri alla civiltà di Roma. Il nipote Eliogabalo, assassinato appena diciannovenne dopo quattro anni di regno, fece in tempo a scandalizzare i romani imponendo il culto del Sole al posto degli dèi tradizionali e travestendosi da donna per prostituirsi in un cubicolo del palazzo imperiale. Ma non è per questo che qualche solerte burocrate ha deciso di trasformare i Severi in una pietra miliare della storia. Il fatto è che con la morte di Marco Aurelio nel 180 si conclude quella che per abitudine consolidata, e un po’ pigra, è vista come l’età dell’oro dell’impero romano, e comincia, per dirla col vecchio Gibbon, il Decline and Fall dell’impero.

Un’era d’insicurezza

In effetti, il secolo che separa Marco Aurelio da Diocleziano è davvero un’epoca poco felice. La peste antonina, che poi era probabilmente il vaiolo, spopola città e campagne. I barbari scorrazzano fin nelle province considerate più sicure, gli Alamanni catturano schiavi nella pianura padana, i Goti saccheggiano Atene: è in quest’epoca che Aureliano, per prudenza, decide di dotare Roma della cerchia di mura che chiamiamo ancor oggi le Mura Aureliane. Il potere politico è in preda a una paurosa instabilità: dal 180 al 284 si succedono ben 38 imperatori, di cui 33 morti di morte violenta.

Di qui il fascino dei pochi autori antichi che ci raccontano quest’epoca tumultuosa: come Erodiano, di cui Einaudi ripubblica oggi la Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, con una nuova prefazione di Luciano Canfora. Erodiano, che scriveva in greco, non è certo un Tucidide: come osserva Filippo Cassola nell’introduzione, sul suo stile «è inutile spendere molte parole. Esso è quanto di peggio possa immaginarsi: nessun autore è riuscito come lui nella difficile impresa di conciliare i più vieti artifici della retorica con un linguaggio povero, sciatto, e banale». Ma che importa? Non lo leggiamo certo per lo stile, bensì per saperne di più sui feroci e bizzarri personaggi che durante l’arco della sua vita si scannarono l’un l’altro per strapparsi il dominio del mondo.

E comunque Erodiano era tutt’altro che uno sciocco, e comincia il racconto di ciò che ha visto con un’osservazione che varrebbe anche oggi: quelli che per mestiere raccontano le imprese dei potenti, dice, sono sicuri di aver successo «anche raccontando notizie false; e sanno che nessuno andrà per il sottile circa l’esattezza dell’indagine»; lui, invece, proverà a dire la verità. Così Erodiano ci accompagna attraverso un mondo meraviglioso e spaventevole, in cui si celebrano sontuose feste religiose, come la festa della Magna Mater in cui i Romani «portano in corteo tutti gli oggetti preziosi che possiedono, i tesori degli imperatori, le materie più rare, i prodigi dell’arte; a tutti è concessa illimitata libertà in ogni divertimento, e ciascuno si maschera nel costume che preferisce».

Peste e profumi

Un mondo in cui per sfuggire alla pestilenza si scappa dalle città, e chi rimane si riempie le narici e le orecchie di essenze profumate, e brucia nelle stanze essenze aromatiche, per combattere la corruzione dell’aria; in cui il popolo attende con ansietà le notizie dell’ultimo prodigio, nascite di animali mostruosi e deformi, apparizioni di stelle mai viste; in cui l’imperatore e tutti i ricchi amanti del lusso si circondano di schiavetti giovanissimi che vivono nudi, coperti solo d’oro e di gioielli, e dividono il letto del padrone; in cui, quando l’imperatore muore, si celebrano i suoi funerali esponendo la statua di cera del defunto, a letto come se fosse ancora ammalato, circondato da matrone e senatori, e i medici ogni giorno vengono a visitarlo annunciando che si è purtroppo aggravato, finché non arriva il giorno in cui si ritiene opportuno dichiararlo ufficialmente morto.

Ragione e magia

Nella prefazione, #LucianoCanfora ricorda che il III secolo è sempre stato etichettato dagli storici come un’«età dell’angoscia», se non come la vera campana a morto dell’impero romano; il che parrebbe dar ragione al ministero. Ma poi lo studioso osserva che l’irrazionale, il pauroso, il magico, anche se emergono con particolare vigore in quell’epoca, in realtà sono sempre stati la faccia oscura della razionalità antica. Quando li vediamo dilagare, non è perché siano nati allora, ma perché si è rotto qualcosa che li teneva a freno. Proprio come oggi, conclude Canfora: anche nella nostra epoca le tendenze irrazionali e i furori mistici, presenti già prima in potenza, adesso fuoriescono «come lava», come è inevitabile «quando i programmi etico-politici più razionali vengono sconfitti».

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