Letteratura

Il #cacciatore di #Calasso cerca le briciole dell’essere

di Rosita Copioli (Avvenire.it 17/07/16)

Forse gli uomini si sono illusi di appartenere al regno delle metamorfosi che nel tempo fluido delle origini faceva apparire continuamente l’invisibile nel gioco instancabile della natura. È difficile seguire il ‘muori, e diventa’ che Goethe prescriveva in un mondo già votato alla ‘secolarizzazione’ della modernità, con la perdita definitiva degli dèi ma anche del senso religioso; esso sembra destinato a una vita di mere funzioni, priva del moto catartico e trasformativo che solo i sogni, la letteratura e l’arte sembrano conservare, come pensa Roberto Calasso. Ne Il cacciatore celeste (Adelphi, pagine 508, euro 27,00) Calasso affronta questo problema radicale dell’essere e del conoscere attraverso una vasta configurazione del telos: il fine perfetto della ricerca: dagli inizi è inseguimento e caccia alla vita attraverso la morte. Sullo sfondo di primordi nascosti nei miti, che solo le testimonianze sciamaniche tra Siberia e America paiono evocare, da forme in movimento di esseri indistinguibili tra loro, animali, uomini, dèi o dèmoni, gli uomini imparano a cacciare gli animali dopo essere stati frugivori, e poi mangiatori di cadaveri come le iene. Li cacciano imitandoli, ciò che significherà sempre più la coscienza di una diversità e la necessità di maschere, strumenti e tecniche, mentre la condizione di promiscuità, dove il sesso-incesto è protagonista, imprime nella mente delle strutture assuefative che si intrecciano senza fine: l’inseguimento, l’uccisione vissuta come sacrificio e colpa; intanto il corpo ha forgiato i canini che incidono e lacerano le carni. La fame e il desiderio sono i primi motori dell’universo metamorfico di prede che divengono pre- datori, di sacrificati e sacrificanti che si confondono tra loro incessantemente. Di lì emerge il Cacciatore solitario, Orione, tra le prime figure che si fissano nello Zodiaco, visibile in ogni latitudine: «La caccia fu l’ordalia della memoria. Il cielo, il primo ordine mnemotecnico». In corrispondenza alla volta del cielo, con la stessa precisione geometrica osservata negli astri, gli uomini del Maddaleniano imparano a disegnare animali, giavellotto e ferita sulle pareti delle caverne. L’esattezza dell’arte è necessaria perché la potenza animale venga colpita da lontano. Così si colpisce il mondo senza toccarlo, come la potenza della mente raggiunge lo scopo in modo invisibile. È già la via dell’essere e della verità di Parmenide, l’orthotes di Platone, l’orthos logos di Aristotele: la linea diritta della giustezza in ogni senso della parola. In un bellissimo quadro di Poussin Orione avanza nel paesaggio selvoso sotto lo sguardo di Artemis, la dea della caccia, verso la freccia che lo coglierà. Artemis, che corre come un maschio, sgusciata leggera dalle carni sovrabbondanti della dea madre asiatica, è l’unica in Omero a condividere con Persefone l’epiteto di agne: ‘pura’ e intangibile. Il suo aspetto di ragazzo, la sua algida separatezza lunare ispira l’eros più attraente. È la prima figura divina della distanza, la condizione suprema della mente intorno a cui ruota la passione più intensa di questo libro. Orione ricorda Prajapati, il Progenitore che nei Veda insegna l’autosacrificio. Ciò apre scenari immensi, che Calasso ha descritto in Ka (1996) e in Ardore (2010): sacrificio, rito, violenza, disputa tra Mente e Parola, rinuncia e distacco. Già argomentati anche in declinazioni moderne, si riflettono qui in altri legami e prospettive, in una caccia della conoscenza che impone concetti quali imitazione, simulazione, sostituzione, protesi (con polemica sulla filosofia che sovrappone apparati, sulla scienza quando abolisce psiche e coscienza). Artemis richiama le genealogie mitiche mediterranee connesse: le ninfe rigogliose, ondivaghe e la loro liquida sostanza mentale; la fraternità-opposizione con Apollo e Dioniso; dèi superficiali che celano abissi; i simulacri, l’Egitto, le vie dei Misteri; Demetra-Core ed Eleusi: riaffiorano Le nozze di Cadmo ed Armonia( 1988), ma in una partitura diversa che include con forza il presente. Due incommensurabili civiltà indoeuropee, la vedica e la mediterranea s’intrecciano ora in una trama già inesauribile, disseminata d’inneschi che Calasso non aveva ancora tentato, nonostante la cultura universale, lo sguardo analogico che collega ogni affinità o corrispondenza, la necessità di continuare a trasporre tutti i miti in un nuovo racconto che li rigeneri e li completi. Due sono anche i modelli. Uno letterario: Ovidio; l’altro speculativo: Plotino. Ovidio fa convivere la frivola Ars Amandicon i Fasti: la raccolta più preziosa dei riti romani. Ma soprattutto nelle Metamorfosi raccorda i lacerti dispersi dei miti in fluida continuità. Plotino, che non vuole aggiungere nulla a Platone, perché lo considera perfetto, segue la spedizione dell’imperatore Gordiano in Persia, per conoscere la religione e la filosofia iranica e indiana. Con lui l’idea dell’essere come motore immobile, dell’Uno fondamento dell’intelligibile, la tradizione greca del Bello spostato nel Bene da cui discende, e da cui viene la bellezza del mondo, diventano ricerca inarrestabile della mente e dell’anima. Nella salita verso l’essere le virtù sono ancora la scala dell’addestramento, che precede il volo, o la «fuga del solo verso il solo»: l’Uno, “Quello” perché la sua realtà non è definibile e limitabile. «Non è essere, non è sostanza, non è vita», ma al di sopra e causa della vita, che ne deriva come da una sorgente infinita. Il pensiero non lo può toccare, deve abolire se stesso. Tenderà a contemplarlo tra luce e tenebra. Sebbene Ovidio sia l’esempio da riprodurre, Calasso non ne segue la fluidità, come è stato osservato. Compone per frammenti, le schegge aguzze che Nietzsche scagliava come frecce dai lampi residui dei presocratici. E nel vuoto che li distanzia, i frammenti fanno vibrare l’immaginazione.

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