L’antica #Atene non è un emporio

Imitare oggi il #sorteggio per le cariche pubbliche?

Nella #polis i veri #leader erano eletti

di #LucianoCanfora (Corriere 5/9/15)

Da vid van Reybrouck, classe 1971 — noto per una significativa monografia sui crimini del Belgio in Congo —, scolaro di storia antica a Lovanio nel 1989, ha scritto un libro, Contro le elezioni (Feltrinelli), che propone, come già fece Ségolène Royal quando perse le presidenziali francesi, di adottare, come rimedio alla degenerazione dei nostri sistemi politici, la pratica del sorteggio per il conferimento delle cariche politiche sul modello dell’Atene del V secolo a.C.

Questo libro — sostiene l’autore — è nato da tre «incidenti»: 1) il corso di storia greca del professor Herman Verdin; 2) una passeggiata sui Pirenei che portò l’autore a scoprire, nella bibliotechina di un albergo, il Contratto sociale di Rousseau; 3) uno scambio di email con un certo Terrill Bouricius, teorico appassionato del modello ateniese.

Sarebbe facile osservare che, del sistema ateniese, l’autore, Bouricius, e forse anche Ségolène, hanno un’idea a dir poco fanciullesca. Non solo perché ignorano l’ampia letteratura ateniese coeva — da Platone a Tucidide, a Isocrate, a Demostene — che in modo martellante descrive i difetti (la corruzione e l’incompetenza in primis ) di quel sistema, ma anche perché lascia in ombra un fatto capitale: che cioè le cariche decisive della città — i dieci strateghi, gli ipparchi e gli amministratori delle finanze — erano elettive , e inoltre, nella prassi, riservate a cittadini appartenenti alle classi più ricche. Pericle, Cleone, Nicia, Alcibiade detengono il potere effettivo perché lo conquistano con campagne elettorali. Non è comunque trascurabile ricordare che un male endemico del sistema ateniese fu l’assenteismo e che quel sistema finì ingloriosamente, tra colpi di Stato e restringimenti del diritto di cittadinanza.

La perdita di una formazione storicistica induce alla pratica di «pescare» random nel negozio dei sistemi politici.

Questo libro è però anche un sintomo a suo modo brillante. Mette insieme, nei primi due capitoli, i dati di fatto che dimostrano in modo inoppugnabile che il ciclo storico del sistema parlamentare-elettivo (in modo confusionario definito da molti «democrazia») è giunto da tempo al capolinea. Il suo declino si è prodotto al venir meno dell’antagonista storico che lo ha fronteggiato per gran parte del Novecento, il cosiddetto «socialismo reale». Van Reybrouck mette in fila molte delle tare che hanno portato alla eutanasia del sistema parlamentare-elettivo: apatia, assenteismo, frustrazione, sfiducia nei governanti, morte dei partiti politici, potere decrescente dei parlamenti (lui dice «impotenza di fronte alla Ue»), delegittimazione crescente degli eletti, immobilismo della macchina legislativa, macchinosità delle procedure nel cambio di governo, asservimento dei media al potere, personale politico urlante e incompetente. E si potrebbe proseguire. Stupisce che l’autore non indichi, tra le cause di assenteismo nelle elezioni politiche, la adozione di sistemi elettorali di tipo maggioritario. I quali, calpestando il principio un uomo/un voto e costringendo le forze politiche a rassomigliarsi sempre più, spingono masse crescenti al non voto. Con felice battuta van Reybrouck scrive che — per segnalare l’esistenza di tale partito «invisibile» — bisognerebbe lasciare vuoto, in Parlamento, un quarto almeno dei seggi.

Una migliore informazione storica avrebbe aiutato l’autore a scoprire che la critica nei confronti del sistema parlamentare elettorale non è una scoperta recente, ma ha accompagnato tale sistema sin dal suo nascere e per tutta la sua esistenza. Né solo nelle forme letterarie brillanti di Swift in Inghilterra o di Balzac in Francia, ma, alla fine del XIX secolo, col sorgere della critica «elitistica» (Gaetano Mosca) e, tra le due guerre mondiali, con gli scritti di Otto Bauer sulla Crisi della democrazia . D’altra parte non esiste, in assoluto, «la miglior forma di governo». (Perciò non convince la frasetta attribuita a Churchill e ripetuta spesso come una litania: la «democrazia» è pessima, ma migliore di tutti gli altri sistemi). Che non esista «il sistema migliore» è dimostrato, tra l’altro, dal ciclico riproporsi ora dell’uno ora dell’altro. Lo aveva intuito il pensiero politico classico.

Ma oggi c’è una novità. Mentre nel resto del pianeta il sistema parlamentare-elettivo è sottoposto agli andirivieni ciclici, nel «centro» (Ue, Usa) si è venuta affermando, e consolidando, dopo l’ultima convulsione otto-novecentesca (liberalismo, fascismo, democrazie postbelliche) la soluzione «elastica». I poteri effettivamente decisivi non sono più elettivi, né esposti all’arbitrio delle fluttuazioni elettorali, sono — bene al riparo (e con l’approvazione abdicante dei poteri eletti!) — organismi burocratico-finanziari. Le elezioni sopravvivono, ma sono la periodica festosa, accanita, ginnastica per le «masse» (quelle ancora disposte a crederci). Caricatura grottesca delle grandi battaglie elettorali della risorta democrazia del dopoguerra. Con questa soluzione — che è anche l’effetto del subentrare, al comando, dell’inquinatissimo capitale finanziario in luogo del capitale «produttivo» — sembra essersi posto un «Alt» al riproporsi del «ciclo». Quanto a lungo possa reggere questa geniale escogitazione non è dato prevedere. Forse però il meccanismo già mostra crepe: guerre costruite ed esportate, nuove schiavitù, crisi economica endemica, conseguenti migrazioni di popoli fanno pensare che il «ciclo» può rimettersi in moto, ed in forme terrificanti. «Quasi nessuna repubblica può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede» (Machiavelli).

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