Se vai dalle #donne prendi la #frusta
Da #Aristotele e Sant’ #Agostino ai giorni nostri la storia del #pregiudizio contro il genere femminile Un libro del filosofo Paolo Ercolani
di Mirella Serri (La Stampa 13/6/16)
Le donne? «Materia fecondabile». I maschi? «Portatori del principio del movimento e della generazione» destinato ai «ricettori passivi e impotenti del loro seme», ovvero alle loro mogli e compagne: così Aristotele discettava sulle differenze tra i due generi a discapito dell’universo femminile. Pure per Platone le appartenenti al gentil sesso erano assai poco attive in molteplici ambiti, da quello erotico alla sfera sociale, a cui si sottraevano volentieri a differenza del socievole sesso forte. Quest’ultimo per Sant’Agostino è votato a «ciò che è elevato e al coraggio» mentre quello debole è condizionato dalla pavidità.
Prende le mosse dal mondo classico una linea di riflessione assolutamente ostile nei confronti della metà dell’umanità e che si snoda nell’arco dei secoli arrivando fino al ’900: a seguirla è Paolo Ercolani, filosofo e docente universitario a Urbino, in Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio (Marsilio, pp. 318, € 17,50). L’autore rileva come non sia mai esistito un altro filone di speculazione così radicale e compatto. A condividerlo sono atei, credenti, progressisti e conservatori dell’intero globo: tutti, anche se agli antipodi su molte altre questioni, concordano sull’inferiorità delle donne. Non basta: Ercolani ha anche analizzato quanto e in che modo questo pensiero misogino abbia condizionato e condizioni ancora oggi l’agire pratico. E ha stabilito che esiste una correlazione diretta «tra il territorio delle idee e la traduzione in pratica delle stesse», poiché l’elaborazione sulla subalternità femminile è andata di pari passo con la legittimazione della sopraffazione e della violenza da parte maschile.
Lo stupro nobilitato
Proprio così: lo stupro, per esempio, a cominciare da quello perpetrato in guerra ma non solo, fin dall’antichità è stato spesso nobilitato e connotato da una sua ragione d’essere. Tito Livio ed Erodoto, ma anche Aristotele, fanno risalire al rapimento «fondatore» l’origine o la caduta di interi popoli, dai Romani agli Ioni ai Pelasgi. Ovidio, è un altro esempio, nell’Ars amatoria afferma che l’abuso sessuale appaga chi lo subisce e costata che «la donna pur combattendo vuole essere vinta… Quando potresti credere che ella non voglia, poi cede». Sostenendo infine che «la violenza è gradita alle fanciulle… poiché quello che a loro piace, spesso vogliono darlo contro la loro volontà». Suggerimenti destinati a fare scuola per lungo tempo: lo denunciava nel ’400 la scrittrice Christine de Pizan, demolendo il diffuso luogo comune per cui, proprio come affermava Ovidio, la donna apprezza la violenza sul suo corpo.
Alle isolate proteste femminili, come quella della pittrice Artemisia Gentileschi, vittima di stupro, scrittori e intellettuali hanno sempre fatto orecchie da mercante. Così Machiavelli osservava che «la Fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla». Cementava in questo modo una convinzione che arriva fino a Nietzsche: «Se vai dalle donne, prendi la frusta». Questi pregiudizi culturali – dice il saggista che li rintraccia nell’intero globo, dall’Europa alla Cina all’India – non si sono limitati a esercitare la propria influenza sul piano teorico: hanno condizionato tanti modi di essere. Basta dare un’occhiata alle statistiche.
«Picchiare leggermente»
Il dato dell’Onu è che nel mondo più di una donna su tre (il 35%), è stata vittima di violenze fisiche e/o sessuali. Anche negli emancipati States la percentuale delle abusate è una su cinque. E pure l’associazione delle università americane ha portato alla luce che più di una studentessa su quattro è rimasta vittima di aggressioni sessuali. Tutto questo accade proprio in quella parte del mondo dove si predica la parità. I combattenti dell’Isis, invece, praticano una vera e propria «teologia dello stupro». Di questi giorni è la notizia che 19 yazide rapite dagli uomini del Califfato sono state bruciate vive perché hanno rifiutato di far sesso con i loro aguzzini. Una proposta di legge presentata da poco dal Consiglio islamico in Pakistan vorrebbe concedere ai mariti la possibilità di «picchiare leggermente» le consorti per fini educativi: se rifiutano di giacere con loro, di fare il bagno dopo un incontro d’amore o se parlano a voce alta con gli estranei. In Italia, poi, come testimoniano i più terribili e recenti assassinii, il femminicidio ha i connotati di una mattanza quotidiana.
Eppure negli Anni Novanta del secolo passato due conferenze mondiali, quella sui diritti umani a Vienna e quella dedicata all’universo femminile, sembravano aver gettato le basi per un nuovo corso, decretando che la violenza sulle donne è un crimine e non un diritto maschile. Perché questi appelli sono caduti nel vuoto? Ercolani afferma che la tradizione misogina è più che mai viva e operante: ad alimentarla, come diceva il filosofo americano Charles S. Peirce, sono i cosiddetti «abiti mentali». Esistono, cioè, delle convinzioni che agiscono nell’ombra, dentro di noi, senza apparire. Non vengono espresse manifestamente ma sono in grado di condizionare le situazioni reali, di alimentare «credenze» o «regole d’azione» capaci di determinarci nei comportamenti. Questi sono gli abiti mentali che non abbiamo mai dismessi. E ancora oggi ci calzano tremendamente a pennello.