Se #parli male #pensi male. Così è nata la Recessione
(Repubblica, 2/1/17)
Dopo vent’anni siamo ancora li. A Michele Apicella che schiaffeggia la giornalista un po’ naïf, colpevole di aver evocato il “kitch”, il “cheap” e soprattutto il “trend negativo”: le parole sono importanti, chi parla male pensa male… Che direbbe oggi l’antieroe malinconico di Nanni Moretti in “Palombella rossa”, sepolto dalle macerie storiche tra le quali si inabissa la vecchia sinistra e dalle fumisterie semantiche con le quali si mimetizza il nuovo capitalismo? Oggi che il “trend” è molto, molto peggio che negativo? Spread, futures, options, subprime, Credit default swap… Altro che schiaffi: volerebbero
mazzate. Ma forse neanche quelle servirebbero a cambiare il corso degli eventi. E ad evitare la resa della civiltà occidentale, che con buona pace di Marx non si è inchinata alla gloriosa “dittatura del proletariato”, ma si è arresa alla subdola tirannia della finanza. Pagando un prezzo immane alla Grande Recessione. Dal 2008 ad oggi, solo in Italia, 10 punti di Prodotto interno lordo, 25 punti di produzione industriale e quasi due milioni di posti di lavoro bruciati.
Questa resa ha un suo vocabolario. Che non solo la spiega, ma l’ha in qualche modo generata. Sovrapponendo i numeri-chiave della Borsa e le parole-simbolo della crisi. La sfera sociale e quella lessicale. È la tesi di Arjun Appadurai, uno dei più celebri studiosi della New York University. Il titolo del suo ultimo saggio dice molto, quasi tutto: “Scommettere sulle parole: il cedimento del linguaggio nell’epoca della finanza derivata”. L’originalità di questo libro sta proprio qui: Appadurai parte dall’idea che il collasso del sistema finanziario, nel biennio 2007-2008, abbia rappresentato una vera e propria forma di “cedimento linguistico”, prima ancora che di crollo economico. E i prodotti “derivati”, per il loro dispositivo lessicale e il loro contenuto contrattuale, sono stati la bomba che, una volta esplosa, ha causato questo cedimento. La costante della Grande Recessione è la perdita progressiva di valore, e alla fine anche di senso, del nostro agire economico. La scena è ormai dominata dall’economia di carta, dove le merci perdono il loro valore d’uso e il lavoro diventa a sua volta merce di scambio. La “finanziarizzazione totale del mercato”, che ha prodotto il crack Lehman e i crack bancari successivi, ha innescato un processo diabolico all’apparenza invincibile: il denaro si utilizza non per comprare un bene o un servizio, ma per produrre altro denaro, usando strumenti che fanno leva sul ruolo giocato dal denaro stesso nel credito, nella speculazione e negli investimenti.
I derivati sono contratti scritti in cui si stipula che, al verificarsi di una specifica previsione sul prezzo futuro di una certa attività finanziaria, la parte perdente si impegna a versare alla parte vincente una somma di denaro pattuita. Dunque, ciascun contratto equivale a una “promessa”. Ma in questa promessa non c’è più traccia di un bene reale, al quale ancorarla. La Borsa non balla con i lupi, ma con gli orsi. Gli “scopertisti” scommettono al ribasso non su un titolo, ma sul rischio che una certa promessa si verifichi o non si verifichi. Il gioco finisce quando la somma delle promesse non mantenute fa schiantare il mercato dei derivati.
Prendete i famigerati “mutui subprime”, il virus che infetta l’America quasi dieci anni fa e poi diffonde il contagio nel resto del mondo. Le banche erogano fiumi di prestiti immobiliari ad aspiranti proprietari di prime case, infilano le relative ipoteche in titoli derivati (e detti non a caso titoli-salsiccia) nei quali quelle stesse ipoteche vengono suddivise all’infinito, ricombinate, rivendute e rifinanziate «secondo modalità al tempo stesso misteriose e tossiche». I derivati vengono comprati e ceduti, in un giro vorticoso nel quale non esiste più alcun rapporto tra il prezzo dei titoli e il valore effettivo degli immobili sui quali è stato concesso il mutuo. Hanno nomi astrusi: “Mortgage backed securities”, o “Asset backed securities”. Hanno un tratto comune: l’ignaro risparmiatore ai quali sono stati rifilati si crede proprietario di una casa, ma ha in mano solo un pezzo di carta. Eccolo, “l’inganno linguistico” denunciato da Appadurai, sul quale si innesca un disastro iniziato allora e non ancora finito. Quella carta diventa straccia quando il valore degli immobili, gonfiato troppo a lungo, crolla all’improvviso e fa venire giù l’intero castello. Milioni di famiglie si ritrovano per strada. Letteralmente fregate dalla «natura carismatica dei derivati», e da un mercato ormai trasfigurato in un «assoluto ontologico». Si realizza così, in tutto l’Occidente, una metamorfosi culturale che appare inarrestabile. Inizia negli anni Settanta e ora arriva al suo definitivo compimento. Il mercato si fa «cardine dell’immaginario collettivo». Sostituisce il rituale e il sacro degli antichi popoli indigeni, e annichilisce lo spirito calvinista della borghesia produttiva, bisognosa di ascesi per agire e motivarsi. Con i derivati, e con la truffa semantica che si portano dietro, il capitalismo si trasforma in un dispositivo autoalimentato, i mercati finanziari orientano e modellano altri mercati, «il capitale finanziario è di gran lunga maggiore del capitale manifatturiero e industriale». La “macchina del capitale”, assemblata dai cervelloni di Wall Street, non gira più secondo le tabelle di marcia dei cosiddetti “fondamentali”, cioè i dati economici di un Paese, di un’azienda, di un prodotto, sui quali costruire una previsione più o meno ragionevole. Corre invece su parametri ormai insondabili, cioè i grafici finanziari che si limitano a riprodurre i precedenti andamenti di prezzo, e su quelli costruisce una “predizione del futuro” che, nota giustamente Appadurai, non si distingue in nulla «dagli schemi degli astrologi, dei parapsicologi e dei lettori di tarocchi». Siamo così alla secessione della finanza dalla scienza economica. Passiamo così dalla “società dell’incertezza” di Max Weber alla “società del rischio” di Ulrick Beck. E non è un bel passaggio. Al contrario, è un incubo. È la nostra vita trasformata in una carta di credito. Siamo noi che, da cittadini-individui, diventiamo “docili vittime” dei predatori finanziari.
Resta da chiedersi se siamo ancora in tempo per ribellarci a questa “economia fondata sulla fede”, che ci «convince ad acquistare, prendere a prestito, darci da fare e desiderare perfino quando le nostre abitazioni vengono pignorate, le nostre carte di credito bloccate, le nostre richieste di finanziamento respinte al mittente e quando i nostri datori di lavoro ci danno il benservito». Appadurai si chiede: ma questo mercato finanziario può davvero “diventare democratico”? La risposta è da filosofo: si può, a patto che si realizzi «una trasformazione radicale dell’architettura del nostro pensiero sociale». Dobbiamo cioè «ripensare dalle fondamenta il vocabolario di cui ci serviamo per parlare del consorzio sociale». Torniamo cosi alle parole. Le parole che possano “fare”, invece di limitarsi a “significare”. Progetto affascinante. Ma non so perché, appena finito il libro, mi è tornata in mente un’altra scena clou di Palombella Rossa. Apicella sbaglia il rigore decisivo, e mentre esce mesto dalla vasca di pallanuoto tutto il pubblico intorno gli grida: Michele/ è finita/ hai perso la partita…
Massimo Giannini