Santi, posseduti, cori greci nella terra dove la tela di Aracne non si è spezzata
Medea salvata dal Dioniso dei cristiani
di Marino Niola (Repubblica 16/7/14)
IL SALENTO è terra di incantesimi. Stretta tra il morso della tarantola e il rimorso di Medea. Dèi e demoni si fronteggiano da sempre in questa penisola sospesa tra due mari. Proprio come Ottavia, la città-ragnatela di Calvino, è sospesa tra due abissi. Le sue strade si congiungono, si separano e si attraversano senza mai spezzare quella linea nera che striscia in tutte le direzioni, come un’inesauribile bava di ragno. Ciascun paese è collegato a tutti gli altri in una tela infinita che si estende tra l’Adriatico e lo Ionio. Sopra arenili incastonati in trasparenze cristalline si levano cattedrali di roccia rose dalla salsedine e rovine calcinate dal sole.
Torri costiere che il tempo ha tagliato letteralmente in quattro spicchi, come cocomeri di tufo ingiallito. Questi fossili di una storia in stato di ossidazione sono l’ultimo rifugio di dèi in esilio. Acquattati nei simulacri androgini di vescovi rococò. O nascosti negli occhi senza fondo di Addolorate nerovestite come Demetra in lutto. Mimetizzati nel candore abbagliante di chiese seicentesche su cui piroettano statue di santi ballerini. Sopra tutti sta San Paolo. Il signore delle tarantole, l’apostolo ambiguo di questa regione di estri smarriti e di tormenti ritmici. Lu santu governa da sempre i tremori e i furori dei tarantolati. E li guarisce facendoli ballare, come baccanti invasati da un Dioniso cristiano. Scatenati dalle spirali sinuose del violino e dal battito ostinato del tamburello che intonano l’antidoto ritmico al male oscuro di una terra in trance. Contro il quale non c’era altra cura se non la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni, finché San Paolo non concedeva la grazia della guarigione. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Come un’irresistibile recidiva coreutica. Una invitation à la danse cui non si poteva che obbedire.
Morso e rimorso. Era questo l’inesorabile algoritmo del tarantismo. Che all’inizio degli anni Sessanta il grande antropologo Ernesto De Martino raccontò in La terra del rimorso , un libro destinato a iconizzare il Salento, facendone il simbolo di una faglia meridiana che divideva la nazione in due. Per l’Italia del miracolo economico fu uno shock culturale. In quegli anni il Belpaese, in piena euforia da benessere, scoprì scandalizzato l’esistenza delle spose di San Paolo – così venivano soprannominate le donne morse dal ragno – che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull’asse smarrito della loro vita. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull’altare della cappella di San Paolo a Galatina con l’agilità spiritata di ragni equilibristi.
Oggi, per fortuna, in pellegrinaggio nella barocchissima Galatina non ci vanno più i tarantati ma i turisti in cerca di buone vibrazioni. Perché l’ombra dell’Aracne mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi. Resta tra le spighe del grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole. E risorge nel riverbero bizantino del tramonto, quando il cielo diventa un’iperbole scarlatta sospesa sopra un orizzonte di assoluti. O risuona nelle notti di tempesta a Punta Ristola, all’estremità del sacro finisterre di Leuca, dove i pescatori dicono di sentire il pianto dei figli di Medea – Mermero e Fere – fatti a pezzi e gettati in quel tratto di mare dalla crudelissima madre. I due innocenti si trasformarono in pietre. Gli scogli dannati. Li chiamano così le donne, che ti raccontano ancora questa terribile storia in grico, il melodioso dialetto greco che si parla da queste parti. E quando le loro voci acute e concitate si accavallano sembrano lamentatrici uscite da un coro tragico.
Proprio a due passi da questo tacco d’Italia, nella chiesa di Santa Maria del Vereto a Patù, si trova ancora un affresco sbiadito che rappresenta Santu Paulu de le tarante con in mano una spada intorno alla quale sono attorcigliati due serpenti. Mentre ai suoi piedi sta uno scorpione sormontato da due serpi intrecciati a forma di caduceo. Quello che gli antichi identificavano con il magico scettro di Hermes. Ma anche con il taumaturgico colubro di Esculapio, il dio medico. Quel bastone miracoloso è come un testimone che passa dalle mani degli antichi numi della medicina a quelle dell’Apostolo delle Genti che ne ereditò i poteri. E a Giurdignano, a due passi dallo scenario mediorientale di Otranto, c’è una minuscola cripta bizantina scavata sotto un menhir. Molti ci vanno nottetempo ad accendere lumini davanti a un affresco che raffigura San Paolo sullo sfondo di una ragnatela. È la fotografia di una storia andata in polvere, che lascia il posto a una sorta di archeologia vivente, o piuttosto sopravvivente.
In realtà il sottile filo del ragno non si è mai spezzato e anche oggi la taranta continua a tessere la sua tela. La differenza è che ora quello che fu il simbolo di un Mezzogiorno dell’anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione, è diventato un attrattore turistico. Ispirando negli anni Novanta la politica di giovani amministratori locali che invece di vergognarsi di quell’eredità e di seppellire il ricordo della tarantola hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in una chance di futuro. Un esempio per tutti. La Notte della Taranta, che ha fatto del ragno un simbolo positivo. Il logo antico di una nuova economia sostenibile. E la pizzica, che fu l’emblema del ritardo storico del Sud, è diventata il motore di un distretto culturale e produttivo capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing territoriale. Ecologia e benessere. La taranta insomma pizzica ancora. Ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E finalmente in Salento si balla senza rimorso.