Rottamazioni e cerchi magici, così #Augusto anticipò la Seconda Repubblica. L’imperatore romano iniziò a scalare il potere a diciotto anni. Lo rese assoluto e lo conservò per tutta la vita. In un saggio di #LucianoCanfora una storia umana e politica fatta di segni carismatici

Filippo Ceccarelli ( Repubblica, 4 /6/15)

All’inizio sembra uno scherzo, l’ultimo e imponente libro di Luciano Canfora su Augusto, figlio di Dio e della guerra civile (Laterza). Salutati in premessa, ma poi subito abbandonati alla mercé di annotazioni, attribuzioni, deduzioni, intricate dispute su periodizzazioni, come pure su svarioni od omissioni di questo o quel severo studioso tedesco, e infine inevitabilmente persi in un dedalo di chiose, glosse, rimandi e varianti spesso in lingua originale (latino, greco antico, inglese, francese, tedesco, non di rado senza traduzione), ecco, per le prime 40 pagine ci si sente come Fantozzi alle prese con la storia romana.

E in sottofondo pare di sentire la voce di Paolo Villaggio: «Dunque Appiano, che ha letto Seneca padre, che ha letto Asinio Pollione, che ha letto Seneca figlio conclude che…». Ma poi?

Ma poi si deve resistere. Perché ne vale la pena. Però ancora occorre attraversare, schivare, superare una mostruosa congerie di fonti e documenti, e frammenti, occultamenti, testi mancanti, codici sospetti, edizioni misteriose, rotoli perduti o vaganti nella classicità con la dovuta connivenza di lessicografi dispettosi, grammatici distratti e protagonisti imbroglioni. Fino al punto in cui il lettore, in pari misura bendisposto e tignoso, ha ormai compreso che si tratta di una specie di iniziazione e arriva dunque a comprendere, pure tra ulteriori plagi e immancabili falsificazioni, semi- apocrifi e omonimie da mal di testa, il privilegio di trovarsi finalmente nell’officina di un grande studioso, qual è senza dubbio Luciano Canfora, con il suo rigore, le sue fissazioni, il suo sfoggio di rare e preziose competenze – perché è così che si fa storia e cultura, anche se i profani si affaticano.

Canfora inoltre è comunista. Arriva al tema attraverso un accenno di Marx in una lettera a Engels. Si dilunga sulle peripezie della biblioteca del filosofo del Capitale, infioretta su Shakespeare, cita Stalin, Trockij e Plechanov, ogni tanto perde la pazienza con qualche suo collega, o lo dileggia. Di sicuro un’autorità nel suo campo, ma anche un personaggio che con qualche temeraria connessione può ritenersi l’epigono di una illustre tradizione di comunisti latinisti e classicisti.

Per qualche ragione i capi del Pci erano attratti dagli antichi romani. Basti pensare a Concetto Marchesi, deputato alla Costituente, ma pure a Paolo Bufalini, uomo delle missioni più delicate nonché presidente della Ccc del Pci, che fu traduttore di Orazio; e se il leggendario segretario del gruppo a Montecitorio, Mario Pochetti si divertiva a prendere in castagna gli sfondoni latinoidi dei craxiani, simul stabunt con quel che segue, al momento di decidere in direzione se aderire o no alla Solidarietà nazionale (1976) Alessandro Natta non trovò di meglio di Giulio Cesare e il De bello civili: Etiam nunc regredi possumus, possiamo ancora ripensarci (non ci ripensarono e il Pci lasciò passare il governo Andreotti).

Nel merito di Augusto, sempre per dirla con imperdonabile semplicismo, l’impressione è che a Canfora non stia tanto simpatico. Né quando ad appena 18 anni comincia la sua scalata al potere con il nome di Ottaviano; né allorché, vendicato il padre adottivo, diventa Cesare; e nemmeno nel momento in cui, dopo aver puntigliosamente addomesticato le sue memorie a proprio uso e consumo, è infine proclamato Augusto, e simulando un mezzo ritiro e una formale restaurazione della repubblica ottiene in realtà il massimo riconoscimento del potere personale, quello di essere divinizzato in vita.

L’immane e meticoloso lavoro sui testi serve dunque a smontare la versione del vincitore, con il che rendendo la storia della guerra civile e poi del lungo dominio augusteo anche un capolavoro di contro-informazione storiografica. Ma una volta ammessi nel laboratorio di Canfora, ben al di là degli scarsi indizi e ricordi liceali è un piacere comprendere tante figure di un’epoca di terribili scannamenti e straordinaria creatività e poi, forse, segnata da un’apparente e strombazzatissima pax. Perciò eccoti alla rinfusa l’animalesco Silla, Bruto sfuggente, Cicerone dai mille non sempre avveduti posizionamenti, e Antonio, Pompeo, Lepido, Cleopatra, Catilina, Senec a, Mecenate, Virgilio, Orazio, quest’ultimo deliziosamente anguillesco nei suoi rapporti con i potenti.

Arriva così piano piano il premio che compensa gli iniziali e anche successivi sforzi di lettura. L’intuizione che la moderna politica nasce in radice proprio dentro queste pagine, fra questi personaggi. La scoperta, e insieme l’insegnamento secondo cui dal passaggio, o nella successione di tirannia, guerra civile, marasma e restaurazione monarchica la storia comincia a girare secondo logiche e forme inesorabilmente mutevoli – ora spaventose e crude, ora sottili e ambigue – che comunque paiono destinate a ripetersi fino a oggi.

Triumvirati, consolati, marce su Roma, marce indietro, farse elettorali, statue abbattute, liste di proscrizione, suicidi sospetti, morti che parlano, paranoie complottistiche, sanguinose rottamazioni, convenienti riabilitazioni, indebite scorribande e spudorate appropriazioni nell’altrui Pantheon; e poi ancora clan e cerchi magici, utilizzo di dossier, archivi fatti sparire, documenti sbianchettati, voltagabbana professionali, traditori patologici (morbo proditores).

Tale armamentario fa scorgere con inaspettata chiarezza a un giornalista politico di oggi le basi fondanti e l’inconfessabile fisiologia del potere, gli archetipi del comando che ardono come carboni sotto la polvere del tempo.

Si può obiettare: la scoperta dell’acqua calda! D’accordo, e infatti il professor Canfora mantiene un certo understatement: «Si colgono meccanismi polemici – scrive – che non ci sono ignoti». Ora, esiste certo una formula meno ribalda per dirlo, ma se la vulgata ha qualcosa a che fare con l’immaginario collettivo, e i Commentari augustei o le opere di Livio con l’odierno storytelling, il risultato è che gli antichi sembrano molto più simili ai contemporanei di quanto lo fossero dei potenti della Prima Repubblica (1946-1992).

E sarà anche perché la guerra civile – latente, virtuale o “a bassa intensità”, come la definì Cossiga in Commissione Stragi – si adatta fin troppo bene all’Italia. Sarà che l’esaurirsi delle culture politiche e dei partiti di massa hanno sgombrato il campo lasciando riemergere segni, simboli e modalità carismatiche appartenenti a un passato davvero assai remoto. Sarà infine che diversi e recenti capi nazionali – dal Duce al “Divo” fino a Berlusconi (per Renzi ci vorrà un po’ di tempo) – hanno mostrato la più spiccata tendenza ad ascendere al cielo. Però al dunque ecco che la storia di Ottaviano Cesare Augusto, Princeps in re publica, autore di un colpo di stato legalizzato, uomo spietato e insieme amante della concordia, generoso e invadente protettore di intellettuali e artisti, comunque portatore di un disegno che lo trascende, ecco insomma che una figura del genere trasmette il senso della più fresca e sgomenta attualità.

Per capirlo, certo, occorre molta pazienza. Ma alla fine pure Fantozzi esce arricchito dalla storia romana, e magari perfino più pronto ad affrontare il prossimo ponderoso trattato del grande antichista Luciano Canfora.

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