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(Repubblica, 25/1/17)

Troppi scherzi e battute così Cicerone finì nei guai

L’ #umorismo del grande oratore lo dimostra: i Romani sapevano ridere e far ridere. Un saggio di Mary Beard

Cicerone non era affatto un tipo serioso, come lascerebbero credere i testi delle versioni che si danno a scuola. Al contrario, era un amante dell’arguzia e delle battute di spirito. Non c’è dubbio che in tribunale e nella vita politica questa dote gli avesse spesso permesso di mettere in difficoltà i propri avversari; ma è altrettanto vero che, a giudizio di molti, la sua arte della battuta aveva anche finito per nuocergli. Veniva infatti accusato di cavarsela troppo spesso con una spiritosaggine, invece di affrontare con serietà i problemi che gli venivano presentati; e soprattutto di trattare con leggerezza temi che avrebbero invece richiesto serietà e compostezza. In breve, l’essere spiritoso aveva procurato a Cicerone tanta ammirazione quanta ostilità, e alla fine molti nemici. Il fatto è che le battute sono armi taglienti, lo sono per chi le subisce ma, paradossalmente, possono esserlo anche per chi ne è l’autore. Provate a farne con gente che per carattere personale o per appartenenza culturale è aliena da questo gioco: alla seconda battuta accadrà che vi prenderanno in antipatia e alla terza cercheranno semplicemente di farvela pagare.

Ma com’erano poi queste famose battute di Cicerone? Così fulminanti come dicono? Plutarco ne riporta qualcuna. Si raccontava per esempio che quando l’Arpinate era in campagna elettorale per il consolato, la carica di censore era tenuta da Lucio Cotta, il quale aveva fama di amare il vino. Una volta dunque che Cicerone ebbe sete, e si fermò a bere a una fontana, commentò: «Il censore potrebbe prendersela con me perché bevo acqua!». Battuta brillante, ma non certo capace di procurargli il sostegno politico del censore Cotta. Un’altra volta, incontrando un tale che aveva due figlie assai brutte, commentò: «Ha generato figli a dispetto di Febo!». Battuta sicuramente sgradevole, perché non si scherza sulla bruttezza delle persone. Già, ma a parte questo non trascurabile difetto, che cos’ha di ridicolo questa uscita? Difficile capirlo, almeno per noi.

Probabilmente Cicerone alludeva a un verso tragico in cui qualcuno parlava di Laio, il padre di Edipo: al quale l’oracolo di Apollo aveva predetto che, se avesse avuto un figlio, questi lo avrebbe ucciso. Magari questo verso veniva da una tragedia appena rappresentata, e dunque era ben presente alla memoria dei Romani; magari era diventato addirittura un proverbio, e tutti lo conoscevano. Chissà. Sia come sia, resta il fatto che a noi questa battuta non fa ridere. La qual cosa ci invita a riflettere su un problema più generale: è molto difficile capire di che cosa, e come, ridevano gli antichi, così come spesso lo è ridere con loro. Proprio come difficile è ridere di battute fatte in un’altra lingua — prova ne sia l’imbarazzo in cui spesso ci mettono le vignette che figurano sui giornali stranieri — e ancor più difficile è far battute in una lingua che non è la nostra. Impresa disperata, votata a sicuro fallimento. Perché il comico, il riso, costituisce in realtà uno dei fenomeni culturali più stratificati, sofisticati e complessi che esistono, legato com’è ai sottofondi del linguaggio, al vorticare degli avvenimenti, alle pulsioni più segrete, e speciali, di un gruppo o di un’intera società. L’alterità, ecco il nemico, e insieme il custode, del comico.

Per questo risulta tanto ammirevole, quanto riuscito, lo sforzo che Mary Beard ha fatto nel suo Ridere nell’antica Roma, un volume che tra acribia e leggerezza, filologia e senso dell’umorismo, erudizione e autentico senso storico, ci restituisce un quadro affascinante del come e del perché i romani ridevano o (perlomeno) si suppone che lo facessero. Senza peraltro sottrarsi all’altro terribile compito che inevitabilmente si trova ad affrontare chi si addentra su questo terreno: ossia quello delle “teorie” elaborate sul comico fin dall’antichità, un filone della riflessione filosofica e antropologica che vanta i nomi di Aristotele, dello stesso Cicerone, di Quintiliano, di Hobbes, di Freud, di Bergson e così via. Il fatto è che l’autrice, brillante divulgatrice oltre che storica di valore, non sa solo studiare e interpretare i testi, conosce anche l’arte di farsi leggere. Cicerone, con una delle sue battute, avrebbe detto: quale mostruosità maggiore di un libro noioso sul ridere?

IL LIBRO

Ridere nell’antica Roma di Mary Beard ( Carocci traduzione di A. M. Paci pagg. 347 euro 28)

Maurizio Bettini

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/01/25/troppi-scherzi-e-battute-cosi-cicerone-fini-nei-guai32.html

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