Repubblica 23/7/14 di Marino Niola

Quel lago fatato con vista sull’Ade

L’IMBOCCATURA dell’inferno si trova nei Campi Flegrei. A dirlo è Galileo Galilei che, nel 1588, dopo attenti calcoli matematici, comunica solennemente all’Accademia fiorentina che la selva oscura di Dante si trova proprio tra il Lago d’Averno, Monte Drago e la Solfatara di Pozzuoli. Mescolando scienza e fantascienza, l’autore del Dialogo dei massimi sistemi dimostra che quello scenario di fuoco e di acqua, dove tutto si mescola, ribolle, sbuffa, svapora è il vestibolo dell’Ade.

Del resto ne erano già convinti i Greci che, abbacinati dalla bellezza inquieta e dal tremore epifanico di questa natura, ambientarono tra i boschi sacri di Cuma e l’imponente falaise di Capo Miseno la battaglia cosmica tra Giove e i Titani.

Furono i coloni eubei a inventare il nome Campi Flegrei, da flegraios che significa ardente. Da allora gli dei dell’acqua e del fuoco, esiliati in questo perturbante underground, non hanno mai smesso di far sentire la loro voce. Certificata dall’ expertise dei più grandi ingegni dell’Occidente. Da Omero a Virgilio, da Dante a Goethe, da Petrarca a Flaubert, da Boccaccio a Turner. Da queste parti ogni insenatura, bosco, fumarola, cratere segna un accapo nel mito. E in ogni sito echeggiano, come un mormorio lontano, le sorgenti remotissime dell’immaginario mediterraneo. Qui Omero avrebbe collocato il paese dei Cimmeri, eternamente avvolto dai vapori sulfurei, dove Ulisse, prima di calarsi nel regno delle ombre, viene a interrogare l’indovino Tiresia.

E sempre qui, sulle sponde di quello che ancor oggi si chiama lago d’Averno, sarebbe giunto Annibale per fare sacrifici a Plutone — re degli Inferi — e conquistarsi i favori delle tenebrose divinità del sottosuolo. Prima fra tutte Ecate, la regina della notte, cui Virgilio nell’ Eneide attribuisce la custodia dei boschi che circondano tuttora questo specchio d’acqua, alimentandone l’aura soprannaturale. È dalle sue sponde che Enea scende nell’Ade, scivolando sulle acque plumbee identificate con quelle del mitico Acheronte, a causa delle esalazioni di gas che accrescevano l’aura infernale del luogo. «Ventum erat ad limen» — era giunto al limite — la scritta virgiliana che campeggia su una lapide ci ricorda che qui tutto è soglia. Ed è impossibile, anche per i più distratti, non accorgersi di esser giunti «al limitar di Dite».

L’ultima volta che ci sono andato, Ecate era di corta. Al suo posto c’era un vecchio bianco per antico pelo. Mi ha radiografato attraverso le sue lenti spesse come fondi di bottiglia e si è presentato come l’ultimo Caronte. Sono stato al gioco e dalle rovine del tempio di Apollo mi sono lasciato condurre attraverso l’intrico del bosco. Ci siamo infilati in un antro scavato nel tufo. Abbiamo attraversato un lungo corridoio appena rischiarato da una fila di lumini fino a una cisterna. Sul fondo mi è sembrato di vedere degli affreschi. A quel punto il mio accompagnatore ha detto che proprio lì la Sibilla pronunciava i suoi responsi enigmatici. E con lo sguardo perduto nel vuoto ha cominciato improvvisamente a declamare «Ibis redibis non morieris in bello ». La più celebre delle sentenze sibilline. Andrai e tornerai, non morirai in guerra. Ma basta spostare la virgola dopo il non, e significa l’esatto contrario. La metrica di Caronte era improponibile ma l’effetto irresistibile. Degno di Totò all’inferno.

In realtà, secondo gli archeologi, il vero antro della pitonessa si trova nell’acropoli di Cuma. Centotrentuno metri di cunicolo scavato nella roccia e illuminato da sei aperture laterali, senza altra funzione che guidare i passi e lo sguardo verso il profondo dello speco dove la profetessa, posseduta da Apollo, andava in trance e pronunciava i suoi oracoli. Che hanno guadagnato a Cuma la fama di Delfi italiana. E ne hanno fatto la meta di esoteristi, maghi, ghostbusters in cerca di buone vibrazioni. Fra Bacoli e l’Averno si celebrano dei veri e propri sabba di janare, o meglio dianare, le moderne adepte di Diana, che organizzano vere e proprie olimpiadi della mantica. La specialità più richiesta è la divinazione col setaccio, l’oggetto che separa la pula dal grano e, in senso figurato, il falso dal vero. Ne parla già Teocrito trecento anni prima di Cristo e nel Cinquecento il grande alchimista e filosofo tedesco Cornelio Agrippa di Nettesheim lo rilancia in tutta Europa. Il setaccio viene fatto ruotare sulla punta di una forbice, e consente alla medium di entrare in contatto con le potenze dell’aldilà. A Cuma raccontano ancora di un certo don Antonio, uno sciamano flegreo, che era capace di farsi così piccolo da entrare in una bottiglia. Come un diavoletto di Cartesio. E tra Miseno e Baia, dove nelle notti d’estate compare il fantasma di Agrippina, la dissoluta madre di Nerone, fino a pochi anni fa molti andavano a farsi leggere il futuro nei fondi di caffè da una donna misteriosa che tutti chiamavano semplicemente la Turca. L’ultima erede di quella genia di ottomane, berbere e siriane che dal tempo dei Normanni esercitavano la stregoneria nel Mezzogiorno.

Nonostante il cristianesimo abbia cercato in tutti i modi di congedare i geni pagani trasformandoli in spettri e in demoni, loro rifiutano di farsi sfrattare. E sopravvivono sotto mentite spoglie. Nei supermercati, ristoranti, spa, discoteche, stabilimenti balneari che portano ancora i loro nomi. Si nascondono perfino nelle chiese. Come quella dove fu decapitato san Gennaro, in mezzo ai bollori e ai vapori della Solfatara. Una cronaca del Seicento racconta che i frati durante la notte erano tenuti in scacco dagli dei spodestati, che scatenavano contro di loro le forze infernali. Per fronteggiare la ribellione dell’Averno, i cappuccini montavano la guardia h24. E ogni 19 settembre, quando nel duomo di Napoli il sangue più famoso del mondo ribolle prodigiosamente nelle ampolle, a Pozzuoli la pietra dove la testa del santo è caduta, risponde altrettanto prodigiosamente ravvivando le tracce ematiche del martirio. Come un display soprannaturale. Un allarme rosso, enigmatico quanto il responso della Sibilla.

Insomma qui il mito sopravvive in una sorta di presente remoto. Contaminato, plastificato. Anodizzato, come gli infissi delle costruzioni cresciute tra soffioni e fumarole. Villette abusive con vista sull’Ade.

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