Ragazzi, imparate l’amore (e il sesso) da #Catullo
di Maurizio #Bettini (Repubblica 12/1/19)
Il recente boom del latino, la festa per la Notte dei licei classici, una nuova edizione delle sue opere che arriva in libreria: ecco perché riscoprire il poeta adorato da Yeats e da una schiera di fan che va dai filologi ai pornografi
Teste calve, ignare ormai dei propri peccati!» scriveva William Butler Yeats, il grande poeta irlandese. Ce l’aveva con gli studiosi di Catullo. Com’è possibile, lamentava, che versi scritti «nei loro letti» da giovani amanti, diventino materia inerte sotto il microscopio dei professori? Povero Yeats. Non poteva immaginare che in un futuro non lontano a Catullo sarebbe toccata una sorte ben più paradossale. Allontanate le teste calve, infatti, sulle sue poesie si sono chinate quelle di voyeur, fantasisti (chiamiamoli così), perfino pornografi. E dunque, che ne è stato del canzoniere d’amore e d’invettiva più celebre della poesia latina? Vediamo.
Ci si poteva aspettare che il «passero», quello che muore all’inizio della raccolta, fosse alternativamente interpretato come il sesso di Lesbia o quello di Catullo. Più scioccanti risultano però le elucubrazioni suscitate dall’«unguento» che le Veneri in persona avevano donato a Lesbia (omettiamo per decenza i dettagli corporei). Ed ecco Lesbia, il grande amore e l’ancor più grande dolore di Catullo. Il lettore si rassicuri: in realtà non è mai esistita. Si tratterebbe solo di una maschera, a cui il poeta avrebbe attribuito un carattere “saffico” (non a caso è descritta come sessualmente attiva) e un nome che evoca pratiche erotiche libertine: la «donna di Lesbo».
Interrompiamo la goffa rassegna, che in verità sarebbe assai più lunga. Basterà dire che si accoglie quasi con sollievo l’idea che l’immagine catulliana del «fiore virginale» sia stata ispirata dalla lettura del Cantico dei Cantici. Criticamente una stupidaggine, certo, ma che almeno non sa di lupanare. E dunque, che cosa è successo al povero Catullo dai tempi di Yeats?
Ha subìto la stessa sorte di altri testi poetici antichi. Dai quali ormai c’è ben poco da spremere — i millenni di studi li hanno resi esangui — ragion per cui bisogna inventare. E siccome siamo nell’era dello scoop, soprattutto erotico, tanto vale spararle grosse. Per nostra fortuna l’Italia sembra restare immune da simili bizzarrie. Ma soprattutto, sempre nel nostro Paese, Catullo ha appena ricevuto in dono un’opera che ampiamente lo risarcisce dei torti ricevuti.
Stiamo parlando di Gaio Valerio Catullo, Le poesie, a cura di Alessandro Fo, dapoco edito da Einaudi. Il fatto è che — a dispetto delle “attualizzazioni” di pornografi e fantasisti — il libro di Catullo è un testo che dista da noi oltre due millenni: come tale non solo è irto di trappole dovute a una lunga trasmissione manoscritta, ma è reso spesso ambiguo dal forte scarto che ci separa dalla cultura romana. Per redigere un commento che renda conto di simili difficoltà, dunque, occorre essere prima di tutto filologi consumati. Non va neppure dimenticato, però, che Catullo è un poeta straordinario. Non ha scritto soltanto versi da letto, come voleva Yeats, ma versi di delicata amicizia, di invettiva giocosa o arrabbiata, versi mitologici degni dell’alessandrinismo più elegante, versi decisamente (e volutamente) enigmatici: e versi in cui l’amore-passione ha trovato una delle voci più schiette e indiscutibili che l’abbiano mai cantato, tra la gioia e la disperazione. Catullo infatti Lesbia l’ha amata davvero. Questo significa che per tradurre le sue poesie bisogna essere non solo latinisti ma, contemporaneamente, poeti. In un caso come questo la lingua d’arrivo, come la chiamano i traduttologi, non può essere solo piana e corretta, ma deve sorgere dal bagaglio di chi conosce a fondo le voci della poesia italiana — e soprattutto si richiede il possesso, in proprio, di un talento poetico. E Alessandro Fo lo possiede. Chi dunque vorrà o dovrà misurarsi col latino di Catullo, d’ora in avanti disporrà di un commento che lo guiderà nel cammino difficile, a volte, dell’interpretazione; chi invece desidererà solo leggere le poesie, in italiano, potrà farlo in una lingua ricca, sfumata, agile, a volte perfino geniale nel gioco delle corrispondenze con il latino. Per non parlare dell’astuzia con cui Fo, nei propri versi, riproduce i ritmi della metrica originale (faleci, esametri, scazonti …) in una forma “barbara” da lui già sperimentata nell’ormai classica traduzione dell’Eneide. Anche se un conto è farlo con l’esametro, un altro è riuscirci con i galliambi saltellanti in cui Attis, seguace di Cibele, racconta la drammatica vicenda della sua evirazione. Insomma, sui classici si lavora da duemila anni, lo abbiamo detto, ostinarsi a darne nuove e sorprendenti interpretazioni può condurre al ridicolo. E se invece, anche approfittando di questo libro, i classici provassimo finalmente a leggerli? Per esempio, incominciate da questi versi.
«Su viviamo, noi due, mia Lesbia, e amiamo / e i mugugni dei vecchi troppo arcigni / tutti insieme stimiamoli uno spicciolo. / Solo i soli si spengono e ritornano» (carme 5).
«Lui mi sembra essere pari a un dio, / superar gli dèi (se non è profano), / lui che, a te davanti, incessantemente / ti guarda e ascolta» (carme 51).
«Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai? / Sta sul seggio curúle Nonio il pustola, / Vatinio si sta spergiurando console: / Catullo, be’, che mora mai al morire, ormai?» (carme 52).
«Odio e amo. Com’è che ci riesca forse ti chiedi. / Lo ignoro. Ma sento che riesce, e ci sto crocifisso» (carme 85).
«Per molte genti e per molte distese vaste portato / eccomi a questi, fratello, funebri riti infelici, / per farti dono di un ultimo, estremo omaggio di morte / e per rivolgermi invano alla tua cenere muta» (carme 101).
«Minchia di montare si sforza il monte Pipleio: / a forconate lo piombano le Muse, a testa all’ingiù» (carme 105).