Quell’attrazione fatale all’#origine dell’#arte

Al Palazzo Reale di Milano un percorso di opere indaga la relazione tra #leggenda# e paesaggio dalla #Grecia a #Pompei

#Mito e #natura

di Marino Niola (Repubblica 5/9/15)

Senza la natura il mito non esisterebbe. Come dimostra ora l’importante mostra al Palazzo Reale di Milano. Ma senza il mito non ci sarebbe la natura. L’uno vive in funzione dell’altra, legati da un’attrazione fatale, da un magnetismo dell’immaginario che è all’origine dell’arte e, in generale, del pensiero umano. Che comincia a riflettere sull’universo in forma mitologica quando i primi uomini, che non conoscono le cause dei fenomeni naturali, li personificano negli dèi. Così Giove folgorante diventa la spiegazione dei fulmini, la casta diva Artemide l’incarnazione dei boschi inviolati e degli animali selvaggi, Apollo il luminoso driver del carro solare, Demetra la padrona delle messi e della natura coltivata. E Gaia, o Gea che dir si voglia, genitrice del cielo, dei monti e delle acque, è la dea eponima della terra madre. E del resto la stessa filosofia che, almeno in apparenza, è l’opposto del mito nasce da una sorta di riflessione poetica sulla natura che è parente

strettissima della mitologia. Quando i primi pensatori greci, Talete, Anassimandro e Anassimene cercano la sorgente primigenia della realtà, chi nell’aria, chi nell’acqua, chi nel fuoco, di fatto inaugurano la poetica della natura, una gaia scienza ammantata di favola.

Ma la physis, il nome che i greci danno alla natura, da cui il nostro fisica, non è solo l’insieme dei regni terrestri, acquatici e celesti, la bella d’erbe famiglia e d’animali di foscoliana memoria. Non è solo ciò che circonda gli umani. Ma è parte di loro. Perché i mortali obbediscono agli imperiosi e misteriosi comandi di Madrenatura, di cui sono i figli più consapevoli. Le sue propaggini estreme. Quelle pensanti, che proprio per questo sono le creature più felici, ma anche quelle più infelici.

In fondo la tragedia e la poesia, che poggiano saldamente sul mito come un palazzo sulle fondamenta, parlano sempre dell’eterna battaglia tra volontà e natura che si svolge in ogni cuore umano. Edipo, Clitennestra, Agamennone, Antigone, Cassandra, Ulisse, sono portati dalla loro natura che li trascina con la forza irresistibile di una corrente verso la loro destinazione fatale. O vero il loro destino che è la stessa cosa. Cioè un luogo stabilito. Lo dimostra il fatidico incontro tra Ulisse e le Sirene, che nell’esposizione milanese è rappresentato nel bellissimo aryballos di Boston, un vaso globulare che è un piccolo compendio di mitologia illustrata. Dove le diverse facce della natura si rivelano nell’atteggiamento doppio dell’eroe che vuole e non vuole cedere all’incantesimo del canto. E nella doppiezza delle incantatrici, metà donne e metà uccello, che simboleggiano i due emisferi dell’essere.

Queste figure alimentano da sempre l’immaginario occidentale. Che spesso dà anche alle astrazioni la forma concreta di siti naturali. Di metafore spaziali. È il caso di Thanatos, la morte. Localizzata a volte in un’isola lontana. Altre volte in un aldilà esotico, come i celebri Campi Elisi. Che sono un giardino eternamente fiorito, una specie di Eden riservato ai beati, con clima ideale, né caldo né freddo. E accarezzato da brezze profumate. Insomma un agriturismo bio per spiriti eletti.

Ma altri, come Omero e Virgilio, collocano la più crudele del- le divinità in un sotterraneo tenebroso, dove regna Ade, il dio vestito di notte. Un abisso così profondo, dice Esiodo nella Teogonia, che un’incudine lanciata nel vuoto sarebbe precipitata per nove giorni e nove notti prima di toccare il fondo. Proprio di questa immagine è figlio l’inferno di Dante, un interminabile imbuto che discende fino al centro della terra.

Ma l’ultimo viaggio può risolversi anche in un tuffo. Come quello raffigurato nella meravigliosa Tomba del Tuffatore di Paestum, uno dei pezzi più belli della mostra. Un aldilà liquido di cui Angela Pontrandolfo, nel bellissimo testo che apre il catalogo, svela i misteriosi significati. Che mettono insieme mitologia e geografia, cosmologia e filosofia, letteratura e architettura.

La possente struttura a blocchi di tufo presente sia nel vaso delle sirene che nell’affresco di Paestum è, infatti, una rappresentazione convenzionale delle porte dell’Ade. Che alcuni collocavano a Gibilterra, vicino alle colonne d’Ercole, ultimo confine del mondo abitato, altri in Asia. Negli scavi di Hierapolis, l’attuale città di Pamukkale, in Turchia, è stato individuato il Ploutonion, l’antico ingresso dell’oltretomba. Una grotta sulfurea accanto a un tempietto di Ade sul bordo di una piscina. In ogni caso una morte per acqua, per dirla con Eliot.

Ma la natura, oltre che energia vivente, forza trasformatrice, potenza maestosa, e spaventosa, è anche risorsa addomesticabile. Sia pur con l’aiuto degli dèi dell’Olimpo che insegnano agli uomini le tecniche dell’agricoltura e dell’allevamento. È Dioniso, dio del vino, a portare da una sponda all’altra del Mediterraneo il succo della vite, con l’aiuto dei satiri e degli amorini. Il cosiddetto vaso blu del Museo Archeologico di Napoli, un prezioso capolavoro in vetro- cammeo, raffigura proprio degli amorini che vendemmiano in uno stato di estasi vegetale, di comunione panica con il vivente. Una comunione di cui il mito non si lascia strappare le chiavi.

E certe volte le nasconde, come una cifra nel tappeto, nei luoghi più quotidiani. Si racconta che Gerone, signore di Siracusa, possedesse un meraviglioso giardino dove si rifugiava a conversare all’ombra squisita dell’albero dell’incenso, tra il mormorio delle acque e gli aromi confusi dell’innocenza e della depravazione. Il giardino aveva un nome eloquente. Si chiamava mito. Come dire che la natura ama nascondersi. Mentre il mito le serve da complice.

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