Quella #chiesa nel #Colosseo

Luca Molinari

la Repubblica, 9 aprile 2017

Ogni grande monumento è imbrigliato in un’immagine fissa, destinata a durare in eterno nella nostra mente. Si tratta di una forma d’inerzia dello sguardo che c’impedisce di percepire le nostre città e le loro opere più rappresentative come un corpo vivo, sottoposto al tarlo inesorabile del tempo. L’architettura non è mai completa al primo giorno di vita, ma se avessimo il potere dell’occhio lungo della Storia, scopriremmo centinaia di modificazioni e rotture che cambiano la forma del corpo di fabbrica e ne dimostrano una sottile resilienza che adatta le materie al passare del tempo.

Il Colosseo è uno di questi clamorosi esempi. Voluto e realizzato tra il 72 e l’80 d.C. dagli imperatori Vespasiano e Tito, ampliato e restaurato da Domiziano, Nerva, Traiano, Eliogabalo, Antonino Pio e Alessandro Severo, poi, una volta caduto l’Impero Romano, cimitero, castello, palazzo della famiglia Frangipane, luogo di culto, cava a cielo aperto per i suoi preziosi blocchi di travertino, luogo spettrale, meta dei viaggiatori da Grand Tour, laboratorio di restauro, centro dei riti del regime fascista, monumento del turismo di massa, set cinematografico, icona pop, fino alla consacrazione a Patrimonio Mondiale dell’Umanità nel 1980.

Colosseo. Un’icona, si intitola, appunto, la mostra allestita nello stesso Anfiteatro Flavio, a cura di Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenziani. Ma è un’icona instabile del paesaggio romano da quasi duemila anni per le continue trasformazioni che l’hanno plasmato. I terremoti e la mano dell’uomo ci hanno consegnato una cartolina fragile attraversata ogni anno da milioni di visitatori che sognano indifferentemente il ruggito dei leoni, il baluginio della spada del gladiatore, la possanza di una rovina straordinaria o l’incedere affaticato dei papi che si sono susseguiti portando la grande croce nel venerdì santo.

La potenza dei grandi monumenti è questa: la capacità di assorbire simboli e immaginari così differenti trasformandoli in un sentimento universale.

Ma in pochi sanno che il Colosseo avrebbe potuto essere molto diverso da come lo osserviamo oggi, perché ci fu un momento della storia di Roma in cui un papa, il marchigiano Clemente XI, nel 1700, diede incarico all’architetto Carlo Fontana di restaurare il Colosseo e di erigere al suo interno una grande chiesa dedicata al culto dei primi martiri.

Non era la prima volta che i monumenti pagani venivano consacrati a edifici religiosi, basti pensare al Pantheon e alle Terme di Diocleziano la cui ala centrale divenne Santa Maria degli Angeli con un progetto di Michelangelo.

Ma in questo caso l’intervento era molto più ambizioso e ci avrebbe regalato un’opera di potentissima suggestione, come dimostra il plastico costruito per l’occasione. Della visione immaginata da quest’architetto lombardo, allievo di Bernini, continuatore della sua opera e uno degli ultimi autori del barocco romano, abbiamo solo alcune tavole a stampa che completano il libro L’Anfiteatro Flavio, descritto e delineato dal cavaliere Carlo Fontana, pubblicato all’Aia nel 1725.

Lungo le 171 pagine, Fontana dimostra una conoscenza tecnica e storica profonda del Colosseo. Ritroviamo nella sequenza dei disegni e delle note tutta la tradizione antiquaria che dagli inizi del ‘500 contraddistingue molti architetti che si avvicinarono alle rovine romane come a un’enciclopedia a cielo aperto da interpretare con cura.

L’ultimo capitolo, quello dedicato al nuovo progetto, è intitolato “Del restituir l’onore all’Anfiteatro Flavio”, con una proposta che avrebbe messo in perfetta tensione l’antica fabbrica e la nuova basilica. Immaginate che la forma ellittica dell’arena sarebbe stata integralmente occupata lungo il suo perimetro da un portico colonnato, culminante in una chiesa a pianta centrale posta alla sommità dell’asse maggiore. Fontana disegna un edificio moderno, imponente, affiancato da due campanili e coperto da una cupola che avrebbe raggiunto l’altezza della fabbrica romana. Tutto l’apparato decorativo avrebbe onorato i primi martiri cristiani per quella che avrebbe potuto essere una delle chiese più clamorose del tardo barocco europeo. Riguardare il modello di questo progetto impressiona perché porta con sé il dubbio di un’occasione mancata anche se oggi è per noi impossibile da immaginare, vista la grande attenzione che poniamo nella cura e nella tutela dell’antico e negli inserimenti contemporanei.

Le scarse risorse finanziarie della Chiesa consumarono sul nascere le ambizioni di Carlo Fontana di realizzare un’opera capace di competere alla pari con uno dei grandi monumenti dell’antichità. Nuova architettura e antico manufatto si sarebbero fusi in un inedito corpo unitario dalla sorprendente potenza. Il corpo della città mantiene dentro di sé i fantasmi delle occasioni mancate, sta solo a noi non dimenticare.

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