Pompei e le altre: basterebbe

l’ordinaria manutenzione

di Mario Tozzi (La Stampa 3/3/14)

Un brivido di freddo ci percorre la schiena quando sentiamo annunciare ricostruzioni lampo e il restauro immediato di monumenti in un Paese al centro di un clima ormai cambiato e geologicamente giovane e irrequieto. La verità è che abbiamo l’impressione di esserci già passati.

Qualche mese dopo il terremoto aquilano del 2009 ci hanno spacciato per quasi avvenuta una ricostruzione che non poteva saltare la fase del container, anche se si trattava di abitazioni antisismiche ben rifinite. Messe però a caso su un territorio che certamente non le vedrà ospitare in maniera stabile una popolazione che ha, come unico desiderio, quello di tornare a stare dove aveva sempre vissuto. Ora la pretesa ricostruzione aquilana sente già i segni del tempo e viene additata dagli specialisti di tutto il mondo come l’unica cosa da non fare dopo un terremoto (e per fortuna in Emilia non si è seguito quell’esempio sciagurato). D’altro canto ci vantiamo di avere il più vasto patrimonio storico artistico e monumentale del mondo (non è poi proprio così, ma insomma) e però ne perdiamo i pezzi un po’ dappertutto.

Terra di sismi e frane, l’Italia del terzo millennio vede sfaldarsi il suo patrimonio monumentale e culturale incurante dei passaggi politici che dovrebbero provvedere almeno alla ordinaria manutenzione. Le mura aureliane a Roma, la cinta medievale di Volterra e, a più riprese, Pompei. Ed è vero che negli ultimi anni sono cambiate le piogge, e sono diminuiti paradossalmente i fondi, ma quella che è mancata è stata soprattutto la cura, l’attenzione a quello che resta il nostro patrimonio più grande. Nonostante le denunce e gli sforzi delle tante persone di buona volontà, che pure ci sono. Eppure lezioni ne abbiamo avute parecchie: ci sono voluti quindici anni per ricucire la ferita del terremoto di Colfiorito (1997), e non perché si andasse lenti. Quello è il tempo tecnico che, più o meno, ci vuole per riportare in sicurezza la torre campanaria di Nocera Umbra, con i suoi cuscini dissipatori di onde sismiche, o le 400 chiese danneggiate fra Marche e Umbria. Ed è il tempo che ci è voluto per ordire una trama di fili d’acciaio che permetta alla basilica di San Francesco di reggere al prossimo terremoto di Assisi. Ce ne sono poi voluti circa venti per l’Irpinia e, a far le cose per bene, è difficile che a L’Aquila si arrivi al risultato in meno di un’altra decina d’anni, considerando che molto tempo è andato perduto e che si tratta di ricostruire un tessuto urbanistico che concentra straordinarie ricchezze artistiche.

Qualcosa si potrebbe fare di diverso? Sì, ricostruire bene, prima che in fretta, e soprattutto porre mano quotidianamente al nostro patrimonio: come dimostra il sisma emiliano, spesso basta una ordinaria manutenzione per evitare i danni dei terremoti di media magnitudo e l’onta delle piogge torrenziali. Non è così difficile: i nostri antenati lo facevano già. Nello stesso Abruzzo e in Campania centri storici restaurati dagli antichi regnanti reggono benissimo ai terremoti che si sono ripetuti solo perché costruiti con attenzione. La stessa cura proteggerebbe anche dalle piogge concentrate. Ricominciamo dall’inizio, e se la ricostruzione si annuncia quando è veramente completata si attribuiranno con più piacere i giusti meriti.

Lascia un commento