#Pompei
Da #Picasso a #LeCorbusier La modernità di un #mito
Viaggio tra i capolavori ispirati dal fascino degli scavi
di Flavio Bufi (Corriere 27/5/15)
C’è un modo per raccontare Pompei attraverso gli storici e gli archeologi che narrano o riportano alla luce la città che fu, e c’è un modo per raccontarla attraverso i cronisti che di quella città che fu raccontano le vicissitudini odierne. Non c’era mai stato finora, e oggi c’è, un modo tanto autorevole quanto scientifico e meticoloso per rappresentare Pompei attraverso il racconto che ne hanno fatto nei secoli i grandi artisti. Pittori, scultori, ma anche musicisti, fotografi, urbanisti.
La mostra Pompei e l’Europa. 1748-1943 (da oggi al 2 novembre al Museo Archeologico di Napoli e all’Anfiteatro di Pompei, organizzata da Electa e con il patrocinio di Expo Milano 2015) offre al visitatore l’opportunità forse irripetibile di lasciarsi affascinare dal fascino che la città del scavi esercitò nel corso dei secoli sui più grandi artisti che la visitarono: Ingres, Picasso, Le Corbusier, Moreau, de Chirico e tantissimi altri ancora. Una chiave di racconto inedita che ha richiesto innanzitutto uno sforzo organizzativo enorme. Il soprintendente Massimo Osanna e i curatori Luigi Gallo e Maria Teresa Caracciolo sono riusciti a portare all’Archeologico circa duecento tra reperti e opere provenienti in gran parte dagli allestimenti dei più prestigiosi musei d’Europa, dal Musée d’Orsay di Parigi al British Museum di Londra, ma l’elenco sarebbe lunghissimo.
Grazie anche agli allestimenti dell’architetto Francesco Venezia, il grande salone della Meridiana diventa un percorso attraverso continui dialoghi tra antico e moderno, tra reperti emersi dagli scavi (grande lo spazio riservato alle opere di recupero eseguite verso la metà dell’Ottocento sotto la direzione del soprintendente Giuseppe Fiorelli, cui va la paternità del metodo per ottenere i calchi dei corpi delle vittime dell’eruzione), e opere pittoriche che quei reperti riproducono. E ancora: ecco la città come era ridotta dopo la grande eruzione del 79 d.c., le sue case, i suoi edifici di culto, e come sarebbe potuta essere nei progetti, o anche solo negli schizzi, di autorevoli architetti come gli allievi dell’École des beaux-arts di Parigi. Ecco gli edifici del Foro, il Tempio di Apollo, il Quartiere dei Teatri tornare al loro ipotetico aspetto originale.
È in questi concetti lo spirito della mostra: proporre, attraverso un percorso che è, nello stesso tempo, artistico e cronologico, una Pompei che vada oltre se stessa. Oltre gli scavi, oltre le emozionanti testimonianze della città sepolta e poi riemersa. È come se i curatori stavolta avessero voluto affidare ai grandi artisti degli ultimi tre secoli prima del nuovo millennio, il compito di raccontarci Pompei, di farcela vedere con i loro occhi, con le loro emozioni, con le loro suggestioni. Sin dalla scultura in bronzo che apre la mostra, l’opera Une trouvaille à Pompéi del francese Ippolyte Moulin, raffigurante un giovane efebo, che mostra fiero la statuetta ritrovata durante un’operazione di scavo.
O ancora la Fanciulla nuda in un labrium pompeiano , di Paul Delaroche, una incompiuta da cui traspaiono tracce della tragedia familiare dell’artista (durante la realizzazione dell’opera perse la moglie) e che non solo per il labrium, ma anche per l’isola di Capri sullo sfondo, appare chiaramente ambientata a Pompei.
Scandito da enormi tele raffiguranti momenti dell’eruzione, il percorso della mostra è ricco anche di oggetti ispirati all’immagine e alla cultura pompeiana. Come vasi, acquarelli su marmo. Oppure foto. Da quelle che raccontano della visita di Picasso agli Scavi, in compagnia di Jean Cocteau e Léonide Massine, a quelle scattate nel corso delle operazioni di scavo e pure entrate a far parte della mostra.
«Siamo riusciti a ottenere opere che non erano mai uscite dai musei dove erano esposte», racconta con orgoglio il curatore Luigi Gallo. E il soprintendente Osanna, a proposito dei calchi esposti all’Anfiteatro, dice: «Siamo riusciti a ridare dignità a questi che non sono oggetti ma resti di vite umane».