#Platone intellettuale disorganico
Al contrario di Martin #Heidegger, che si richiamava di continuo ai vincoli collettivi, l’autore greco riteneva che il #filosofo dovesse opporsi ai luoghi comuni dominanti proponendo idee nuove per il governo della #città. Anche a costo di esporsi e rischiare
di Mauro #Bonazzi (Corriere La Lettura 27/ 3/16)
Il 21 aprile 1933 Martin Heidegger fu eletto rettore dell’Università di Friburgo. Adolf Hitler era al potere dal 30 gennaio, il 1° maggio Heidegger aderiva ufficialmente al partito. Il 27 maggio tenne la prolusione inaugurale, L’autoaffermazione dell’università tedesca , una rivendicazione della missione politica dell’università, che doveva schierarsi in prima linea nella costruzione del nuovo ordine. Era il tempo della chiamata del destino: il filosofo aveva risposto, ponendosi alla guida della sua comunità, pronto per la «lotta» (parola che ritorna ossessivamente nel discorso) in un cammino «da cui non vi è ritorno». Come Platone, pensarono tanti (e molti ripetono oggi), che nella Repubblica aveva descritto lo Stato ideale e non aveva esitato a imbarcarsi per Siracusa, pieno di vergogna se si fosse rivelato un filosofo «buono solo a parlare, ma incapace di tradurre in atto le sue idee».
Il rinvio era quasi d’obbligo. Nella Germania di quegli anni Platone era, insieme a Nietzsche, un punto di riferimento imprescindibile, tanto per ideologi come Hans Günther o Alfred Rosenberg quanto per gli studiosi eredi della grande tradizione accademica tedesca. Sempre in quel 1933, ad esempio, Kurt Hildebrandt, professore a Kiel, pubblicava Platone. La lotta dello spirito per la potenza , un tomo voluminoso e tutt’altro che banale (fu tradotto anche in italiano da Giorgio Colli, per Einaudi nel 1947), per celebrare l’eroica battaglia di Platone in difesa della patria, contro caos e disordine. Platone, il filosofo guerriero e «l’educatore dell’uomo tedesco». Il titolo, con la parola Kampf , «lotta», a evocare il Mein Kampf di Hitler, spiegava da solo fin troppo.
Nello stesso spirito, il discorso di Heidegger culminava con una citazione di Platone, esaltante e minacciosa allo stesso tempo: «Tutto ciò che è grande è nella tempesta». Era come un crescendo wagneriano, capace di evocazioni inattese, di paralleli illuminanti. «Tempesta» in tedesco è Sturm : come Sturm-Abteilung , le SA, insomma, le famigerate camicie brune, che avevano accompagnato il Führer alla conquista della Germania e che ora sedevano tra i banchi dell’Università di Friburgo, raccolte intorno al filosofo nell’ora decisiva. Il sogno di Platone finalmente si avverava.
Il problema, però, è che Platone aveva scritto un’altra cosa. Convinto che tra il greco e il tedesco corresse un’affinità intima ed essenziale, Heidegger non ha mai avuto paura di tentare traduzioni ardite in cerca di sensi reconditi o verità nascoste. Ma in questo caso (e non è il solo) nessuna rivelazione attende il lettore: molto banalmente la traduzione è sbagliata. Nel testo si legge che «ciò che è grande è instabile». Non è un dettaglio da poco, perché cambia tutto. La distanza tra Heidegger e Platone si misura anche da qui.
Nato nel 1889, Heidegger ha accompagnato la Germania nella catastrofe da adulto. Platone ha assistito al tracollo di Atene da giovane. La guerra persa contro Sparta, il conflitto civile in cui gli aristocratici (molti dei quali suoi parenti) si erano macchiati di violenze e misfatti, il processo democratico contro Socrate: non c’è da stupirsi se maturò la convinzione che si dovessero cercare nuove strade, lontano dalle piste battute della politica tradizionale, per rifondare la città su basi solide. È questo il senso della tesi tanto abusata della Repubblica : non ci sarà fine ai mali degli uomini fino a quando i filosofi non governeranno o i governanti non diventeranno filosofi. La filosofia deve farsi carico della città. Ma non c’è niente di enfatico nelle parole di Platone. Socrate prevede che la sua affermazione sarà accolta da derisione e disprezzo; Glaucone, il suo interlocutore, paventa addirittura che molti lo inseguiranno con i bastoni. Come succede al filosofo nel mito della caverna: cerca di liberare i suoi compagni dalle catene e loro lo uccidono. Allegorie trasparenti, che evocano la morte del Socrate storico e rivelano il disincanto di chi sa quanto sia difficile opporsi al potere dei pregiudizi e dell’ingiustizia.
Ma perché impegnarsi allora, tornare nella caverna?
È la domanda che, in quegli stessi anni, si poneva Leo Strauss: ebreo, aveva seguito le lezioni di Heidegger, e presto sarebbe stato costretto all’esilio. Con Platone nella valigia, leggendolo e rileggendolo, in cerca del suo messaggio profondo. I problemi in effetti non mancano, perché la Repubblica si regge su una contraddizione evidente. La gente non vuole che il filosofo governi (e infatti lo uccidono); il filosofo, immerso nelle sue conoscenze, non ha nessun interesse a governare: perché mai dovrebbe allora rientrare nella caverna? Non sarà che la Repubblica , paradossalmente, ci vuole insegnare proprio il contrario di quello che afferma, vale a dire che politica e filosofia devono restare separate? Era un’idea che aveva solleticato Aristotele, come spiega Giuseppe Cambiano nel suo ultimo libro Come nave in tempesta (Laterza), e che Strauss ha sviluppato approfonditamente, a partire dal saggio Una nuova interpretazione della filosofia politica di Platone (pubblicato nel 1946 e ora tradotto da Quodlibet).
Il filosofo, però, rientra nella caverna. Perché? Forse perché, a pensarci bene, non ne è mai uscito. Perché è sulla stessa barca, spiega ancora Cambiano, e rischia di affondare con gli altri. E soprattutto perché, senza la compagnia degli altri uomini, non sarebbe più uomo neanche lui. Non gli resta allora che combattere per le sue idee, discutere, spesso esporsi al ridicolo, a volte rischiare la vita. In fondo l’utopia platonica è tutta qui: non l’elaborazione di un modello perfetto da imporre con la forza, ma una riflessione critica che ci aiuti a comprendere e correggere il mondo in cui viviamo. Tra ideale e reale c’è sempre una frizione, un contrasto latente. Il rischio, ben presente nelle scelte di Heidegger, è quello di dimenticare il primo per appiattirsi sul secondo; il compito della filosofia, per Platone, è evitare questa deriva, che conduce al cinismo di chi pensa che nulla possa cambiare, e che l’affermazione di se stesso sia l’unico valore da adottare. Immaginare il non-luogo (l’utopia, appunto) per tenere aperto il campo del possibile, come ha detto Paul Ricœur. Per questo, quando ne ha avuta la possibilità, Platone si è imbarcato alla volta di Siracusa, per convertire Dionisio alla filosofia.
Riesce difficile immaginare qualcosa di analogo tra Heidegger e Hitler. Non ci sono destini da cavalcare, ma la consapevolezza di chi è pronto a impegnarsi per cambiare quello che non va. Contro il suo tempo, per il suo tempo. Non è un compito facile, il prezzo da pagare a volte è alto. Ma «ciò che è grande è instabile»: fragile, rischioso, e per questo deve essere difeso.
Heidegger e Platone, insomma, divergono perché hanno una diversa concezione della realtà e del filosofo — dell’intellettuale, diremmo noi oggi. Il libro di Donatella Di Cesare sui Quaderni neri, da poco uscito in seconda edizione, aiuta a chiarire il problema. Per Heidegger, il filosofo è organico alla sua comunità, radicato nella sua terra; parla in suo nome e in sua difesa, da lei traendo ispirazione e autenticità. Sono idee condivise in quegli anni, che ritornano anche oggi nel rinvio ossessivo alle nostre radici, manco fossimo alberi, o nei continui inviti a difendere e preservare la nostra identità (senza peraltro mai chiarire in cosa consista, poi, questa identità). La polemica è contro chi rifiuta questo rapporto: «sradicati», incapaci perciò di profondità; privi di legami con la comunità del popolo, indifferenti dunque al destino della patria che li nutre. Pericolosi. Il bersaglio principale, inutile dirlo, erano gli ebrei, il popolo del deserto, dove non si possono mettere radici. E con loro gli intellettuali, capaci solo di pensieri astratti, propagatori di principi vuoti perché universali. Ma non è questa anche la posizione di Platone?
Il termine più usato per descrivere Socrate, nei dialoghi platonici, è atopos . Lo si traduce spesso con «bizzarro, strano», per indicare l’originalità della filosofia e anche il fastidio, o il disprezzo, con cui essa viene accolta da chi mal sopporta di veder messe in discussione le proprie certezze. Ma il termine dice di più. A-topos , alla lettera, significa «senza luogo». Ed è in questo significato che rivela la natura autentica del filosofo, la sua libertà. Il filosofo: privo di radici, e perciò libero di muoversi; libero dai luoghi comuni della sua terra; libero di alzare lo sguardo verso altre realtà. Come l’albatros di Baudelaire, goffo sulla tolda della nave, «esule sulla terra», ma «re dell’azzurro» quando finalmente dispiega le ali, in volo, negli spazi sconfinati del cielo (sconfinati come lo sono quelli del deserto, viene da chiosare, in cui gli ebrei riconquistarono la libertà). E per questo utile per la città, quando può mostrarle nuove strade, aiutarla a non arroccarsi in se stessa. Non è per nulla semplice il mestiere del filosofo, sempre in bilico tra la tentazione di perdersi negli spazi sconfinati dell’ideale e i rischi concreti che lo attendono all’interno della caverna. Ma proprio per questo è così appassionante.