Perché oggi viviamo tutti nel #regno del dio #Pan

d Maurizio Bettini (Repubblica 12/1/18)

Il diverso come minaccia, il furore religioso, l’accecamento della ragione: la nostra era sembra dominata dalla figura mitologica che evoca il terrore

Spiaggia di Sisco, Corsica, 13 Agosto 2016. La presenza di bagnanti musulmane che indossano il burkini provoca la reazione di alcuni corsi («siamo a casa nostra!») con relativa controreazione di alcuni nordafricani: auto incendiate, feriti, paura in spiaggia. I media danno ampio risalto all’evento, i politici di destra ne approfittano per denunciare l’invasione islamica, il sindaco di Sisco emana un’ordinanza che vieta l’uso del burkini in quanto viola il principio di laicità. Passa qualche giorno ed emerge però che il burkini non c’entrava nulla: si è trattato di un banale scontro fra bande rivali per il controllo della spiaggia. Il Consiglio di Stato sospende l’ordinanza anti-burkini, la faccenda scompare dai media.

Ecco un perfetto esempio di “panico identitario”: ossia lo spargersi di un’agitazione immotivata — o comunque sproporzionata — di fronte a un certo evento, solo perché si ritiene che in esso sia coinvolto un gruppo sentito come culturalmente minaccioso. In questo caso i musulmani, i cui “costumi” (la parola può essere intesa nei due sensi) metterebbero in pericolo la “identità culturale” di un intero paese.

Sarebbe ingenuo però ritenere che il panico identitario si sparga da solo. Come in questo caso, a gestirlo ci sono sempre dei veri e propri “imprenditori dell’identità”, personaggi politici, o mediatici, pronti ad arrogarsi il ruolo di detentori dell’identità culturale minacciata da profughi e immigrati. Già, ma cosa sarebbe mai questa “identità culturale” che si vuole difendere?

Difficilmente coloro che se ne fanno araldi ne definiscono le caratteristiche. Al massimo invocano vagamente i “valori” del cristianesimo, dell’Europa o dell’Occidente… Del resto si sa che dire in che cosa consiste l’identità di una persona o di un gruppo costituisce un’impresa che ha scoraggiato fior di filosofi — figuriamoci se potrebbe cavarsela l’imprenditore identitario di turno. Ed ecco un’altra domanda interessante: come e quando nasce questa idea della “crisi di identità”? Lo spiega Régis Meyran, in uno dei saggi raccolti nel libro Paniques identitaires, edito da lui e da Laurence de Cock. Di “crisi di identità” comincia a parlare, negli anni Sessanta del Novecento, uno psicoanalista americano, Erik Erikson. La sua attenzione si concentra su individui appartenenti a minoranze che, come tali, sono preda di una perpetua tensione fra la cultura dominante che li ospita e la subcultura da cui provengono.

Erikson si rivolge soprattutto a neri, nativi americani, donne, ma l’elenco si potrebbe ampliare.

L’identità di questi gruppi è minacciata in quanto viene loro imposta una “identità negativa” da parte della maggioranza che li circonda: tipo il “negro” stupido o criminale, e così via. Di conseguenza nei decenni successivi l’impegno di molti gruppi consisterà, come sappiamo, nel rivendicare il diritto a manifestare una propria identità culturale. Processo lungo e spesso doloroso, specie negli Stati Uniti.

Torniamo però a ciò che accade oggi in Europa. Il fatto sconcertante è che stiamo assistendo a una vera e propria parodia delle originarie “crisi di identità”. Adesso infatti a sentirsi minacciate sono paradossalmente le maggioranze, che temono una “crisi” della propria identità culturale (maggioritaria) a motivo della presenza di minoranze culturali. Il panico identitario dilaga. L’Ungheria ha un 2% di immigrati, ma gli ungheresi credono che essi ammontino al 16% della popolazione. Se la Polonia fa anche peggio, neppure il nostro paese si distingue. Gli immigrati costituiscono circa il 9% della popolazione, con un 2% di musulmani: ma gli italiani credono che la percentuale sia del 30% e che i musulmani ne formino il 20%. «Questo paese è già islamizzato!» mi urlava nelle orecchie un tassista romano, anche lui vittima del panico identitario. O meglio, come preferirei dire, vittima del dio Pan.

Non so infatti se, parlando di “panico”, de Cock e Meyran avessero in mente il dio greco da cui questa sindrome prende nome. Probabilmente no, eppure tutto invita a credere che Pan c’entri eccome. La nostra società sembra realmente caduta in preda ai deliri di cui Pan era ritenuto il potente signore. A lui i Greci attribuivano non solo la capacità di scatenare un terrore tanto infondato quanto irrefrenabile, tale da sconvolgere un intero esercito, ma soprattutto il potere di accecare le persone, impedendo loro di riconoscere chi sta loro d’intorno: trasformando gli amici, i compagni della sera prima, in pericolosi nemici. Il fatto è che Pan toglie il discernimento.

Quando dunque della donna che fa la spesa, come noi, nel supermercato, riusciamo solo a notare che indossa il velo, e non che compra gli stessi biscotti che compriamo noi o che non indossa le stesse scarpe e lo stesso piumino che indossano le nostre amiche — ecco, siamo caduti in balia di Pan. E quando ritiriamo i nostri figli da scuola per il terrore che siano contaminati dalla teoria del “gender” — da cui la nostra “identità culturale” sarebbe minacciata — è ancora Pan che popola di fantasmi la nostra mente. A questa divinità i greci attribuivano perfino l’insorgere di una sindrome tragicamente attuale: la mania religiosa, quella che conduce al fanatismo e all’ossessione per il divino. Difficile perciò non ritenere che siano preda dei deliri di Pan quei gruppi islamici fondamentalisti che uccidono in nome del loro Dio; e in generale tutti coloro che considerano la religione non un costrutto culturale, come tale degno di reciproco rispetto, ma un assoluto, rispetto al quale non si ammettono alternative. Racconta Plutarco che, al tempo di Tiberio imperatore, nell’isola di Paxos risuonò una voce misteriosa e potente, che annunziava al mondo la morte del dio Pan. Non era vero.

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