Per la prima volta nelle aule italiane non ci sono #alunni del secolo scorso
(Corriere della Sera, 31/8/18)
Con l’anno scolastico che arriva, si realizza un passaggio che per una volta si può tranquillamente definire epocale: il trasloco definitivo, armi e bagagli, dal Novecento al Duemila. A parte i casi dei ripetenti che hanno ancora anagraficamente una scarpa o una mezza scarpa nel secolo scorso, in tutte le classi di età avremo solo studenti regolari nati nel nuovo millennio; ragazzi che non hanno respirato neanche un refolo, una boccata d’aria del secolo definito breve, eppure interminabile per tante ragioni storiche, tragedie comprese.
Che cosa comporta questo passaggio? Nulla nei fatti, certamente qualcosa sul piano simbolico, come accade per tutte le deadline. E come si sa i simboli non vanno presi sottogamba, perché talvolta muovono il mondo nel bene e/o nel male. Questo qualcosa, che non va enfatizzato, ha certamente a che fare con la simbologia dei numeri. L’esperienza ci insegna che siamo legati, in maniera inevitabile e si direbbe naturale, al nostro anno di nascita: il 1956 è diverso dal 1957, il 1967 non è il 1968, e da quel peculiare senso di appartenenza ricaviamo suggestioni psicologiche che volenti o nolenti ci portiamo con noi per tutta la vita.
Ora, per un individuo che ha visto la luce dopo il 2000 lo stacco dal passato diventa a maggior ragione una lontananza non solo numerica ma anche emotiva, anzi affettiva e perciò culturale: ed è come se con l’anno scolastico 2018-2019 la differenza generazionale, tra studenti e professori, improvvisamente diventasse una distanza più consapevole, con il vantaggio, magari, di scoraggiare l’eterna tentazione di assimilare i «giovani» ai nostri modelli, o peggio di scimmiottare, per eccesso di complicità, i loro comportamenti.
D’altro canto, guardare dall’altra parte del ponte il secolo trascorso potrebbe rivelare a un «nativo digitale», con maggiore chiarezza e serenità, il variegato paesaggio, con i suoi pregi e le sue brutture: toccherà semmai ai docenti illustrarlo con la competenza di chi l’ha studiato e la passione di chi in parte l’ha vissuto e forse sofferto. Nel migliore dei casi, questa deadline potrebbe essere il momento giusto per rivedere polverosi programmi scolastici che, considerando il Novecento il «nostro» secolo, nell’eccessiva (e ambigua) vicinanza hanno sempre trovato buone ragioni per trascurarlo. Da quest’anno, restando quel secolo pur sempre «nostro» (di noi vecchi babbioni), dobbiamo sapere che a tutti gli effetti non è più il secolo «loro»: e non è detto che prendere coscienza delle differenze non finisca per essere didatticamente più utile che affannarsi a ricercare artificiose affinità.
Questo passaggio epocale (così carico di valore simbolico) potrebbe dunque sospingerci verso una assunzione di responsabilità: trattare finalmente a scuola il Novecento come un secolo altro, perché adesso effettivamente lo è. Certo, prendendo troppo sul serio questo invito, c’è il rischio della noia e della mummificazione che hanno reso a noi (babbioni del Novecento) così insopportabile il secolo di Manzoni. Ma questo è un altro discorso.
PAOLO DI STEFANO