Nel mar dei #Marmora dell’antica #Roma
Grandi libri. La nuova edizione di uno studio fondamentale
(e introvabile) scritto da Raniero Gnoli e dedicato alla storia e alla classificazione delle #pietre decorative policrome usate dai romani
di Alvar González-Palacios (Il Sole Domenica 22/7/18)
Sono fra i fortunati che hanno il privilegio di possedere le tre edizioni di Marmora romana, molto simili tra loro ma non identiche, nelle quali si tratta delle pietre colorate usate dagli antichi romani per la decorazione. La prima edizione del libro risale al 1971 e fu curata personalmente da un ottimo impaginatore, anzi molto di più, da Enzo Crea, proprietario delle Edizioni dell’Elefante. Non offenderò il lettore ripetendo che l’autore di questo capolavoro è Raniero Gnoli, indologo, professore di sanscrito, antichista, edotto come pochi nell’arte classica e in tanti altri aspetti del gusto, della decorazione e persino in facezie squisite come nappe, frange e galloni.
Conobbi Raniero molti anni fa in casa di un comune amico, Mario Praz: ho già raccontato altrove la straordinaria circostanza in cui il nostro amato anglofilo pregò Raniero di elencare tutti i marmi colorati che adornavano un suo prezioso mobile sostenuto da sfingi. Sfingi erano anche Raniero e Mario, custodi di molti segreti. Posso dire che quello fu uno dei giorni più fortunati della mia vita? Mario era Mario per pochi, ma trovare di un sol colpo Mario e il Mago, per rammentare un racconto di Thomas Mann, fu un atto di benevolenza divina. Raniero ed io eravamo ancora giovani: parlo del 1971, quando era appena uscita la prima edizione del suo libro. Alto e biondo, in parte tedesco (come Bianchi Bandinelli) aveva quel distacco e quei modi che non erano del tutto mediterranei. Ma non di soli marmi si parlò, piuttosto di letteratura, di mobili, di amici con quel gusto per gli oggetti rari e per le descrizioni preziose di fatti e di persone. Molte cose sono mutate ma la bellezza e la bizzarria restano tali per noi due.
Non sapevo allora molto sugli antichi sassi ma qualcosa mi era già noto e quando venivo a Roma facevo il giro dei marmisti alla ricerca di qualche campione colorato. In quelle passeggiate romane conobbi gli stessi artigiani che si menzionano ne Lo Gnoli (così dovrebbe chiamarsi questo celebre repertorio): Fiorentini, Onori, Maiorani e anche Bruno Cordiano, allora giovane apprendista presso la Galleria Sangiorgi, uomo dotato di capacita rabdomantiche. Ad essere sinceri i nostri interessi erano filologici ma anche – e non certo di meno – “antiquari”, come si chiamava in antico la conoscenza erudita di coloro che erano interessati in ogni tipo di anticaglie, persino nelle tazzine di porcellana (quelle «monache dell’antiquariato» come le chiamava Praz) e addirittura nella polvere vera e propria, il miglior collante del sapere.
Qui parliamo con reverenza di un volume bellissimo e per più di un motivo. Innanzitutto ci incanta il suo aspetto tipografico meditato a lungo anche dall’autore: «Cosa importantissima mi è parsa quella di insistere sulle illustrazioni a colori ed in misura naturale di ogni singola pietra. Queste illustrazioni, commentate dalle tavole in nero, formano, per così dire, l’ossatura del volume».
Ma come spiegare la chiarezza pari all’eleganza di un testo straordinario? A mio modo di vedere nel pieno Novecento solo altri due autori, Roberto Longhi e Mario Praz, hanno dedicato pari cura allo stile della prosa. Longhi, Praz e Gnoli sono saggisti, non narratori, e gli uomini italiani di sapere – o se si vuole di scienza – non sempre si distinguono per la grazia stilistica. I tre hanno avuto la capacità di rendere l’erudizione affascinante e dunque li leggiamo non solo perché ci insegnano ma anche perché ci regalano ore di grande incanto letterario, perché raccontano bene ciò che sanno.
Questa nuova edizione, dicevo, è quasi identica alle altre che però non sono più in commercio da anni. Forse la terza – quella appena uscita per i tipi de La nave di Teseo – è più vivace della seconda poiché nuove tecniche e nuovi macchinari consentono di migliorare, se fosse ancora possibile, ciò che già appariva perfetto. Ed è comunque sorprendente che un’opera ideata mezzo secolo fa resti così incomparabilmente fresca sia nel suo insolito formato – quasi una sigla delle ormai cessate Edizioni dell’Elefante – sia nella perfezione del dettato sul quale non certo potremmo dire quel che lo stesso Raniero scrisse su un cultore cinquecentesco delle vecchie pietre, Agostino Del Riccio: «Dello stile non dobbiamo far tanto caso». Lo stile di Gnoli è sempre originale e polifonico.
Lo stralcio
«I monti mandan marmorei drappi»
di Raniero Gnoli
Chi s’aggiri ancor oggi per il Palatino, per i Fori, per le rovine di terme e di monumenti, vedrà tra i sassi e la terra smossa, soprattutto dopo la pioggia, spiccare piccole scaglie e frammenti di varie sorta di marmi colorati. Questi frammenti non sono pietre originarie del suolo di Roma, ma vengono da tutte le parti dell’Impero.
«I monti d’oriente/ i monti d’occidente/ d’Austro e di Borea, mandan marmorei/ drappi a comporre/ tinto nell’iride/ il manto imperiale a la città fatale».
Queste parole d’un poeta romano del secolo scorso non sono un’esagerazione. La Spagna, la Mauritania, la Numidia, la Tripolitania, l’Egitto, l’Asia, la Grecia, le Gallie, ogni provincia ha mandato il suo contributo di pietre a Roma, né c’è quasi marmo, usato nella più remota località dell’Impero, che non sia in qualche modo rappresentato a Roma, o di cui non si sia rinvenuto ai nostri giorni o in antico qualche frammento negli scavi. Talune varietà di marmi, al dire di Plinio, provenivano perfino dall’India e da Taprobane, l’odierna Ceylon.
La ricerca ed il gusto del marmo bianco o colorato, usato, non come in Egitto ed in Grecia, come pietra da costruzione, per motivi pratici o sacrali, ma per ornamento di case, di ville e di templi prese sì enorme ed universale sviluppo con Roma, ma non nacque con lei. «L’uso di segare il marmo in lastre (così Plinio) fu forse inventato in Caria. Il più antico esempio, a mia conoscenza, è il palazzo di Mausolo in Alicarnasso colle pareti in mattoni rivestiti da marmo Proconnesio». L’uso di marmi colorati a fine decorativo è largamente ancorché indirettamente attestato nell’Egitto tolemaico. […]
Il numero dei marmi usati in epoca romana è grandissimo. Lo studio di essi non è solo interessante per una maggiore conoscenza dell’evoluzione, delle tecniche, del gusto e delle complesse relazioni commerciali che univano le varie regioni del mondo antico, ma anche, direi, perché ci rivela un diverso aspetto della natura. I marmi usati dagli antichi (o, come dirò d’ora innanzi i marmi antichi), sono in generale assai più belli dei marmi moderni. Di questa mutazione in peggio la colpa non è, evidentemente, della natura, ma dei diversi criteri con cui si scelgono e cavano oggi i marmi, e, insieme, della differente lavorazione ed uso che si fa solitamente di essi. I marmi nell’antichità erano cosa di lusso. Non solo le ville con pavimenti marmorei sono nel mondo romano relativamente assai poche, ma in marmo vengono di regola lastricate le stanze di maggiore importanza soltanto. Nella grande villa imperiale di Piazza Armerina l’unico ambiente lastricato esclusivamente di marmo è la grande Basilica. Tutto il resto è a mosaico, che, in antico, era assai più economico del marmo. Per avere un’idea della rarità e del costo del marmo basta, del resto, andare a Pompei. La maggior parte dei pavimenti è in coccio pesto, in alcuni casi modicamente arricchito da qualche mattonella di marmi di vari colori […]. Il marmo, in conclusione, era cosa di rado ed in scarsa misura accessibile ai provinciali, anche se relativamente benestanti, e riservata ai grandi edifici pubblici, ai palazzi ed alle ville imperiali, alle sedi di città e di campagna delle grandi famiglie senatorie e dei ricchi liberti romani.