Musei reali & virtuali

Roma antica «reloaded»

di Stefano Simoncini (Il Sole Domenica 25/5/14)


In occasione del 2767° Natale di Roma, il 21 aprile scorso, è stato presentato di fronte a una platea di 200 persone il progetto Foro di Augusto – 2000 anni dopo, «magia tecnologica» realizzata da Piero Angela e Paco Lanciano nel quadro delle celebrazioni del bimillenario della morte del primo imperatore di Roma, Cesare Ottaviano Augusto. La magnifica rovina del foro di Augusto è tornata per la prima volta ai suoi originari splendori grazie all’integrazione prodotta da ricostruzioni 3D e videomapping – proiezioni che modificano l’aspetto di oggetti e superfici tridimensionali –, accompagnati dall’efficace narrazione audiovisiva di Angela.
L’evento di Angela è in linea con la tradizione “romana”, inaugurata da Renato Nicolini, che fa leva sull’intrinseca spettacolarità della città per conferire appeal popolare a contenuti culturali di alto profilo. Parliamo di eventi a vario grado “attinenti” alla scenografia monumentale: si va dal mitico Napoleon di Abel Gance proiettato nel 1981 davanti al Colosseo, al pionieristico videomapping di Peter Greenway con 480 proiettori a piazza del Popolo del 1996, alle celebri edizioni dell’Opera ambientate a Caracalla. «Foro di Augusto» Foro di Augusto si distingue dai precedenti per il fatto che il contenuto coincide con la scenografia, ma anche in parte per la non gratuità. Le tecnologie digitali, ripristinando l’originaria bellezza e funzionalità dei luoghi, trasformano le suggestive rovine in testimonianze integre di un tempo lontano, rivestendole di nuove valenze emotive e conoscitive. 
L’esperienza così significativa induce una riflessione su quali possano essere gli scenari futuri generati dalle tecnologie digitali e dai nuovi media in relazione al patrimonio, sia dal punto di vista della ricerca che da quello della valorizzazione rivolta al grande pubblico. Le ricostruzioni virtuali, puntando sulla spettacolarità di un dato momento storico, confezionano un «prodotto» che rischia di ridurre la storia a un repertorio di forme culturali definite e chiuse in loro stesse. Questo effetto può tuttavia essere «corretto» dallo stesso sviluppo tecnologico che attraverso altri strumenti permette di ricomporre le sparse testimonianze materiali e immateriali sopravvissute. Gli archivi informatici stanno infatti generando un nuovo «sistema di conoscenza» che a partire dalla ricomposizione dell’esistente su un’unica tela consentono di operare ricostruzioni scientifiche molto attendibili che mettono al centro il divenire storico e la stratigrafia delle sue forme culturali. Roma, per quanto sia in ritardo nello sviluppo di questi strumenti, è un terreno di sperimentazione unico al mondo ai fini della loro corretta definizione e utilizzo. Proprio in ragione della quantità e qualità senza pari del suo Patrimonio culturale.
Gli esperimenti gravidi di futuro non mancano. Sul fronte della creazione di sistemi informativi che ricompongano i disiecta membra dell’antico, si stanno muovendo in correlazione il Sitar della Soprintendenza di Stato, diretto da Mirella Serlorenzi, inventario digitale di siti e reperti archiviati su base territoriale, e il Sistema informativo archeologico di Roma antica promosso da Andrea Carandini e Paolo Carafa, che raccoglie le conoscenze disponibili intorno a luoghi e monumenti della topografia storica. Ma si sta procedendo in modo incoraggiante anche sul fronte della ricostruzione dei pezzi mancanti del puzzle. Soprattutto con l’Atlante di Roma antica degli stessi Carandini e Carafa, che tenta l’impresa titanica di una ricostruzione integrale della topografia storica romana nelle sue diverse fasi, ma anche con le imprese tecnologiche di ricostruzione in 3D dell’antica città, dal «Rome reborn» del Politecnico di Milano (con la University of Virginia), al «Virtual Rome 2.0» dell’Itabc (Istituto per le tecnologie applicate ai Beni culturali) del Cnr. Per quanto riguarda gli output di questa filiera, i cosiddetti musei virtuali, la situazione è meno avanzata, se si eccettuano gli esperimenti delle domus romanae «aumentate» da videomapping sotto palazzo Valentini, sempre a cura di Angela e Lanciano, o le ricostruzioni curate dal Cnr Itabc, tra cui la «Villa di Livia reloaded» e il paesaggio di Roma nel Pleistocene al museo di Casal de’ Pazzi. In realtà Roma si distingue in questo ambito soprattutto per una «colossale lacuna», come sostiene Andrea Carandini, quella di un «museo della città» che dovrebbe essere «una delle prime ambizioni culturali della capitale». 
I musei della città, che hanno nel mondo grande diffusione e grande successo, si configurano oggi come luoghi dove promuovere, con il contributo delle tecnologie digitali più avanzate, una lettura unitaria del patrimonio e delle trasformazioni urbane prodottesi dalle origini delle città al loro stato presente. E sono spesso anche dei luoghi dove condividere con i cittadini una visione dei problemi e delle possibili evoluzioni future. Questa nuova forma museale, che è un prodotto delle nuove tecnologie, è l’evoluzione della forma originaria di museo della città che era nata a fine Ottocento per documentare vita, costumi e parti di città che andavano scomparendo con la modernizzazione, tra sventramenti e urbanizzazione. A Roma il museo della città ha una storia travagliata che s’intreccia con la storia di un importante edificio, il complesso di 23.000 metri quadrati che sorge in una posizione strategica e unica al mondo, tra il Circo Massimo e la Bocca della Verità, adiacente al Palatino. L’edificio, un ex pastificio che attualmente ospita i laboratori e i magazzini del Teatro dell’Opera e alcuni uffici comunali, è stato in passato un museo della città di prima generazione: dal 1930 al 1939 ha infatti ospitato il Museo dell’Impero, oggi all’Eur con il nome di Museo della Civiltà Romana, e il Museo di Roma, oggi a palazzo Braschi. Tenendo perciò insieme reperti che documentavano la storia della città dalle origini all’Ottocento. Chiaramente aveva la funzione propagandistica di celebrare la continuità storica tra impero e regime, e per questo non è stato ripristinato dopo la Seconda guerra.
Si è però cercato di farlo negli ultimi dieci anni, con una progressiva definizione che si è interrotta soltanto con l’attuale amministrazione. Su impulso soprattutto di Andrea Carandini, e di uno studio pionieristico del Dipartimento delle Politiche economiche di sviluppo del Comune, che sotto la direzione di Luca Lo Bianco già nel 2004 aveva proposto un Virtual Heritage Center che tenesse insieme ricerca, formazione e comunicazione al grande pubblico, tra cittadini e turisti, ha preso forma l’idea di fare di quell’edificio il “portale” dei Fori e dell’intero Patrimonio romano, un hub tecnologico che permettesse, attraverso ricostruzioni virtuali e reperti, una lettura delle stratificazioni e trasformazioni di 3000 anni di storia e vita della città. Dopo la determinazione di una commissione Stato-Comune nel 2008, che disponeva «l’organizzazione del Museo della Civiltà romana, della Città di Roma e degli Antiquaria statale e comunale negli edifici di via dei Cerchi», e una delibera che nel 2012 stabiliva la creazione in 6 anni del «Grande polo museale» dei Cerchi con una spesa di 146 milioni, oggi sembra che tutto si sia fermato.
Solo l’assessora alla cultura Flavia Barca sta cercando insieme alla Sovraintendenza comunale di rilanciarlo nell’ambito di un progetto europeo che finanzierebbe, per 116 milioni complessivi, un pacchetto di interventi di conservazione, soprattutto su siti e monumenti minori e finora trascurati, nonché un «circuito unitario di fruizione» che faccia leva sull’uso delle «tecnologie digitali» e sulla realizzazione del «grande polo museale della città» a via dei Cerchi.
Il museo della città di seconda generazione a via dei Cerchi, restituendo una lettura unitaria di questo immenso oggetto storico che è Roma attraverso ricostruzioni virtuali e testimonianze materiali, sarebbe un museo unico al mondo. Al tempo stesso, tenendo insieme ricerca e comunicazione, consentirebbe di integrare in un unico luogo diverse tecnologie per conferire maggior fondamento scientifico alle ricostruzioni e alle immersioni emotive nel passato. E l’epigrafe del futuro museo potrebbe essere, ancora, una bella frase di Carandini: «Roma, un infinito, che l’informatica quasi cattura».

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