Magrelli, tecniche per ritrovare la #lingua #perduta
I limiti della #traduzione. Come «salvare» in italiano un delizioso componimento in rima di Yves Bonnefoy? Il traduttore è un Ercole sempre al bivio, spiega Valerio #Magrelli nel suo nuovo saggio, teorico e sperimentale: «La parola braccata», il Mulino
di Alberto Fraccacreta (il manifesto 29/4/18)
Immaginate che Yves Bonnefoy riceva una lettera di richiesta di collaborazione dai piccoli redattori del giornalino «Das Nashorn» (Il rinoceronte) della scuola Hermannsburg di Brema. Immaginate che il poeta francese accetti per simpatia ma, accludendo il componimento, precisi in un biglietto l’eccezionalità dell’impresa («Si tratta di qualcosa che non faccio mai»). Immaginate che la quartina donata reciti: «J’aime bien ce rhinocéros / Qui se croyait un albatros. / Il ne voyageait qu’en carrosse… / On en a retrouvé un os». Come si potrebbe tradurla in italiano (o, nel caso degli arditi Kinder Journalisten, in tedesco)? Quale strategia di resa sarebbe il caso di adoperare, considerata l’identica terminazione dei quattro octosyllabes?
Ricreare l’effetto sonoro
La storia, realmente accaduta, è riportata nell’intelligente La parola braccata Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico (il Mulino «Saggi», pp. 217, € 20) di Valerio Magrelli, qui in veste di teorico – e pratico – della traduzione. Se la versione di servizio è «Amo assai quel rinoceronte / Che si credeva un albatros. / Viaggiava soltanto in carrozza… / Se n’è ritrovato un osso», l’autore romano suggerisce una sfilza di riscritture che, utilizzando un’espressione ibrida tra Jakobson e Nasi, potremmo definire interculturali: annodate cioè sul filo del raffronto tra incongrui – anche se contigui – mondi concettuali. La prima proposta si attacca alla parola «rinoceronte». «Amo davvero quel rinoceronte: / Albatros si credeva, all’orizzonte. / Viaggiava con il proprio automedonte… / Ne hanno trovato un osso della fronte». L’orizzonte e l’osso della fronte non sono presenti nell’originale. L’automedonte è l’auriga per antonomasia (ma viene invocato il diritto alla metonimia di Giuseppe Bevilacqua). La traduzione sembra, appunto, interlinguistica e interculturale: cerca di ricreare l’effetto sonoro-stilistico, utilizzando lemmi che girano attorno al cuore semantico del testo senza poterlo colpire del tutto.
La seconda soluzione è, invece, autentico virtuosismo. «Lui, dei rinoceronti il vero boss, / Pure, si riteneva un albatros. / Faceva solamente motocross… / Morto, di ossa ne rimane un po’». Quella che potrebbe benissimo suonare come la versione rap della filastrocca bonnefoiana (sarebbe piaciuta a Seamus Heaney, che amaval’hip-hop), non è un semplice passare al setaccio, ma esprime l’aspetto più doloroso del tradurre: lo scegliere, lo sciogliere, l’essere costretti a una decisione trasognata e mai adeguata alla materia, come Ercole al bivio nel quadro di Raffaello. Lo scarto è inevitabile, traducendo si perde. Anzi, la traduzione è una rammemorazione, la «chiara intuizione di quanto “si voleva dire”», o addirittura «lo sforzo di chi cerca di far risorgere dal nulla (dal non-linguaggio, specificherebbe Quignard) una parola svanita» sulla punta della lingua.
La traduzione è anche metafora dell’incomprensione relazionale, «cosa significa “relazione”?». Ricœur chiama in campo il concetto di «ospitalità linguistica», che ha il dovere di sanare le piaghe dell’incomunicabilità. Ma, come asserì Benjamin, il problema è forse più addietro: bisogna presupporre, all’alba dell’umanità, una lingua originaria, immacolata, perduta e irriconoscibile verso la quale, comunque, tutti gli idiomi tendono e dei cui «negativi» è possibile intravedere un risvolto proprio nell’atto traduttorio. Per tale ragione Magrelli riporta la celebre asserzione di Richards che associa la traduzione al «più complesso tipo di evento mai prodotto nell’evoluzione del cosmo». E per tale ragione la prima parte del saggio, quella squisitamente teoretica, è allineata alle maggiori acquisizioni in campo neurologico, come le «biografie cerebrali» di Lurija dedicate a uno mnemonista (affetto da ipertrofia della memoria) e a un logoleso, un paziente colpito al cranio durante la seconda guerra mondiale.
Un caso di eidotecnica
Assistiamo alle vicende del signor Šereševskij, letteralmente funestato dal linguaggio a causa delle sue enormi capacità visive legate all’eidotecnica. Egli vede le parole, è immerso in una «preistoria tattile» del logos che lo costringe ad avvertire persino il sapore, la consistenza, il colore (à la Rimbaud) dei vocaboli. «Mondo e linguaggio – commenta Magrelli – giungono a coincidere e sovrapporsi, in un universo mentale dove l’ipertrofia della memoria si rovescia in una sconsolata impossibilità di vivere una vita normale». La lingua bracca l’uomo, come a più riprese ci ha abituato lo stesso Magrelli in alcune sue liriche, fra tutte Porta Westfalica. Ma il destino di Zašeckij, segnato da una lesione all’emisfero cerebrale, è opposto e complementare: «Disertato dalle parole, spogliato della capacità di organizzare il mondo, rigettato in un analfabetismo percettivo, questo malato è un martire del linguaggio, un uomo esiliato da sé stesso». L’uomo che bracca la lingua, scrive le sue friabili memorie che non potrà mai leggere.
Braccato e braccante: la via del traduttore è a metà tra questi estremi. Lo dimostra la seconda parte del saggio, impegnata a sciogliere anagrammi, acrostici, indovinelli, calligrammi, sottotitoli di film. Alla maniera di Ercole prodicio, è necessario saper optare tra Bene e Male dentro l’irto terreno del transito linguistico. Ce lo ricorda anche il Gadda citato a mo’ di congedo da Magrelli: «So’ li dispiaceri che m’è toccato da passà». Dispiaceri di uno smemorato. E di un traduttore.