L’indulgenza di #Scipione

Un saggio di Gastone Breccia (in uscita per l’editore Salerno) traccia il profilo del militare romano che a soli ventisei anni comandava un esercito di quasi 30 mila soldati. Fu detto l’« #Africano » dopo la vittoria sui #Cartaginesi a #Zama

di Paolo Mieli (Corriere 14/11/17)

Sconfisse Annibale ma non lo uccise

Poi venne accusato di tradimento

Racconta Tito Livio che Publio Cornelio Scipione — detto «Africano» a seguito della straordinaria vittoria sull’esercito cartaginese a Zama (202 a.C.) — «compiva la maggior parte delle sue azioni affermando davanti alla gente di aver avuto premonizioni». Forse, prosegue Livio, «davvero il suo animo era dominato da una certa superstizione», o piuttosto «era la gente stessa ad assecondare i suoi ordini e i suoi progetti», quasi fossero stati preordinati da un nume. Quando prese la toga virile, prima di salire sul Campidoglio ed entrare nel tempio, Scipione si isolava dagli altri e se ne restava da solo, appartato, come se dovesse ricevere proprio in quegli attimi l’ispirazione divina. Lasciò altresì diffondersi, «di proposito o casualmente», la leggenda che lo voleva «uomo di stirpe divina». Fu riesumata, afferma ancora Tito Livio, «la diceria — ugualmente falsa — diffusasi una volta attorno ad Alessandro Magno, che cioè egli fosse stato concepito dall’accoppiamento (di sua madre) con un mostruoso serpente». Scipione «non smentì mai la fede in quei prodigi, ed anzi, con una certa abilità, la lasciò crescere»; pur senza compromettersi, cioè senza dire apertamente qualcosa «che andasse in quella direzione».

Gastone Breccia, nel suo straordinario Scipione l’Africano (in procinto di essere pubblicato da Salerno), scrive che sarebbe ingenuo pensare che l’Africano ritenesse davvero d’esser stato concepito da un dio il quale aveva preso le sembianze di un serpente. Ma considera errata l’insinuazione — quasi esplicita nelle parole di Tito Livio — secondo cui l’abitudine di Scipione di ritirarsi in solitudine in un luogo sacro «fosse una recita a beneficio del popolo». Gli dei, mette in evidenza Breccia, nella Roma della fine del III secolo prima di Cristo sono ancora «vive presenze sul colle Capitolino». Ed è naturale che il ventiseienne Publio Cornelio Scipione, il quale nel 210 a.C. era da solo al comando di un esercito di quasi 30 mila uomini, confidasse nell’aiuto divino per poter diventare, come si proponeva, «il vendicatore della patria e della famiglia». Dopodiché è vero che Publio Cornelio si autopromuoveva «nel ristretto numero degli uomini a contatto con gli dei» per completare la rappresentazione di sé come guida predestinata e provvidenziale dello Stato: fin dall’inizio della sua carriera pubblica, pretese che il popolo fosse spinto a seguirlo come si va dietro ad un generale che per metà è un dio.

Ne aveva bisogno. Era divenuto capo della sua gens da giovane, ancora inesperto, dopo la morte in battaglia del padre e dello zio (211 a.C.). Era «nipote e pronipote di consoli e senatori, nato nel seno di una delle famiglie più antiche e illustri, educato fin da bambino a seguire la carriera politica di tutti i patrizi». La sua vita cambiò, secondo Breccia, un giorno di fine inverno del 218 a.C. quando suo padre venne eletto console insieme a Tiberio Sempronio Longo. Era un momento davvero importante nella storia di Roma: «Da un’intera generazione — dalla battaglia delle isole Egadi che nel 241 a.C. aveva posto fine alla prima lunga guerra con Cartagine per il controllo della Sicilia — Roma era la potenza egemone del Mediterraneo occidentale, dove le sue flotte non avevano più rivali». Ma Cartagine aveva saputo risollevarsi e l’espansione nella penisola iberica voluta da Amilcare Barca le aveva procurato «ingenti risorse economiche, con la possibilità di reclutare mercenari in gran numero», aprendo così «prospettive strategiche vantaggiose per una ripresa della lotta». E quando nel 219 il figlio di Amilcare, Annibale, attaccò Sagunto — città amica di Roma, ma fuori dalla sua zona di influenza quale era stata definita nel trattato firmato con i Cartaginesi, che assegnava a Roma stessa un’area con un confine segnato dal fiume Ebro — sul Campidoglio si diffuse un senso di paura e di colpa. Di paura perché fu in quel momento che si intuirono l’aggressività e le grandi capacità militari di Annibale. Di colpa per aver sottovalutato lungo oltre un ventennio (più o meno l’arco di tempo che nel Novecento intercorse tra la Prima e la Seconda guerra mondiale) il «riarmo cartaginese». Fu in quel momento che l’Africano, figlio del suo omonimo Publio Cornelio Scipione, iniziò a sentire in casa le ragioni che motivavano una «condotta aggressiva nei confronti di Cartagine». Roma era ancora parzialmente pervasa da sentimenti pacifisti (alimentati dalla gens Fabia, con il console Marco Fabio Buteone), ma il capo della gens Cornelia, Scipione senior, riuscì a farsi assegnare l’esercito che sarebbe andato a combattere contro Annibale. A suo fratello, Gneo Cornelio, Scipione padre avrebbe lasciato il compito di compiere la missione in Spagna. A sé riservò l’impresa di fronteggiarla nell’alta Italia. E portò al proprio fianco il figlio diciassettenne. Fu in questa occasione che nel 218 il nostro Scipione salvò la vita al padre nella battaglia del Ticino (ma Breccia definisce l’episodio, assieme ad altri dello stesso genere, «poco credibile»).

Nel 216 il futuro Africano riuscì a sopravvivere alla catastrofe di Canne. Cinque anni dopo, in Spagna, persero la vita suo padre e suo zio. E fu di lì a poco che, appena venticinquenne, venne nominato proconsole e spedito in Spagna. Dove, nel 209, sconfisse i nemici a Cartagena. Come? Secondo Breccia, Scipione conosceva la «buona regola per non sbagliare, in guerra»: quella di «concepire piani semplici e affidarne l’esecuzione ai subordinati con istruzioni chiare, essenziali e possibilmente flessibili». Dopodiché la seconda regola, quella per la pace, sarebbe stata di essere particolarmente generoso con gli sconfitti. Dalla fine dell’Ottocento gli storici, o meglio alcuni storici come Theodor Mommsen, hanno messo in discussione l’operazione militare spagnola di Scipione, accusandolo di aver consentito al fratello di Annibale, Asdrubale (che oltretutto gli aveva ucciso il padre e lo zio), di trasferirsi nell’alta Italia mettendo in serio pericolo la penisola. Ma — anche a prendere per buoni questi capi d’imputazione — tutti poi concordano che vada riconosciuto a Scipione il merito di aver concepito fin dal 205 il disegno di andare a combattere la Seconda guerra punica in Africa così da costringere Annibale a lasciare l’Italia.

Prima della battaglia decisiva, Scipione e Annibale si incontrarono su sollecitazione di quest’ultimo. Perché? Secondo Barry Strauss ( L’arte del comando , edito da Laterza) Annibale «sapeva che se fosse morto in battaglia e Roma avesse vinto la guerra, sarebbe stato il nemico a scrivere la storia e voleva che in seguito, quando si sarebbero rivolti a lui, Scipione ricordasse l’uomo che aveva incontrato sotto una tenda prima della battaglia».

Scipione vinse nel 202 a.C. a Zama. Da quel momento — all’epoca aveva 33 anni — fu chiamato l’Africano. Ma la sua vita pubblica non si concluse in quei giorni. Dopo Zama, invece di uccidere Annibale o di trascinarlo a Roma in ceppi, Scipione gli salvò la vita. E si prese cura di lui. Anzi si può dire che, come ha scritto Giovanni Brizzi in Annibale (Bompiani), il generale cartaginese trovò «un difensore generoso ed insperato proprio in Scipione», che gli concesse di essere ancora un politico di primo piano nella Cartagine del dopo Zama. Come ha scritto Basil H. Liddell Hart in Scipione Africano (Rizzoli), mettendo a confronto le proposte del vincitore di Zama con quelle che, nel 1919, suggellarono la conclusione della Prima guerra mondiale, «non si può fare a meno di apprezzare la grande moderazione di Scipione a confronto delle condizioni poste a Versailles» agli Imperi centrali dalle potenze vincitrici dell’Intesa. Finché furono gli stessi cartaginesi che si rivolsero a Roma perché li liberasse di quel condottiero.

Contro il parere di Scipione (così argomenta Werner Huss in Cartagine edito dal Mulino), Roma inviò «osservatori» a Cartagine nel 195 a.C. e Annibale fece appena in tempo a fuggire per rifugiarsi, dopo un lungo viaggio, a Efeso sotto la protezione di Antioco di Siria. Che però sarebbe stato, a sua volta, sconfitto dai Romani, cosicché il grande cartaginese fu costretto a riprendere la peregrinazione verso il regno di Bitinia. Annibale da quel momento capì che non sarebbe mai più tornato in patria. Scipione per parte sua era tornato in una Roma che lo aveva accolto sì trionfalmente, ma senza che con ciò i suoi numerosi avversari politici deponessero le armi. Erano, questi avversari, quelli che potremmo definire gli eredi di Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, morto da più di un anno, ma ancora «vivo» nella memoria di coloro che erano sempre stati ostili all’audace vitalità di Scipione. Scipione capì l’antifona e si ritirò all’istante dalla vita politica. La sua successiva assenza dalla scena si può spiegare solo come «rinuncia volontaria», scrive Breccia, mettendo in evidenza come Tito Livio non fornisca «alcuna spiegazione del suo comportamento» di cui, anzi, sembra non essersi neanche accorto.

Scipione, osserva Breccia, fu un grande soldato e comandante; non venne mai battuto e «non ebbe bisogno di comportarsi da eroe» (se non alla sua primissima apparizione sul campo di battaglia del Ticino quando — come si è detto — la leggenda vuole che abbia salvato il padre circondato da cavalieri nemici). Però poi, aggiunge lo storico, «sulla scena ambigua delle lotte di potere nell’orizzonte chiuso della classe dirigente repubblicana, sembrava aver perso l’iniziale spirito di iniziativa». Forse anche per questo, osserva Breccia, la sua figura è rimasta per così dire offuscata nella memoria. Un’«innata sobrietà» fu «la caratteristica più spiccata del suo comportamento, in guerra come in pace». Ma questa «dote» mal si conciliava con il suo desiderio di restare in qualche modo ancora sulla scena pubblica. Fu qui, su questo palcoscenico, che il tribuno della plebe Marco Nevio (fattosi portavoce dei suoi ormai innumerevoli oppositori, che avevano in Catone la loro punta di diamante) citò Publio Cornelio Scipione Africano a comparire al cospetto del popolo per difendersi dall’accusa di proditio , ovvero alto tradimento. Accusa accompagnata da insinuazioni su dissolutezze nella vita privata e sottrazione di denaro pubblico (insinuazioni che mancavano di qualsiasi appiglio documentale). Qualche riscontro poteva avere invece l’addebito di aver accettato un favore da un nemico, il re di Siria Antioco e la concessione al siriano, in cambio di questi favori, di condizioni di pace a lui più favorevoli. Cosa che, ove mai fosse stata dimostrata, avrebbe potuto essere considerata, essa sì, alla stregua di un danno alla res publica . Ma anche in questo caso non c’erano prove inconfutabili.

C iò nonostante Nevio, sostenuto da uno schieramento che si faceva di giorno in giorno più ampio, si spinse a indicare in lui, nell’Africano, «un politico che voleva farsi dittatore». Anzi: a prendere per buono quest’ultimo decisivo capo di imputazione, per Nevio Scipione era già diventato un «despota». Il tribuno lo accusava, riferisce Livio, di essersi mosso «soltanto per mostrare chiaramente alla Grecia, all’Asia e a tutti i popoli d’Oriente ciò di cui ormai da tempo erano convinte la Spagna, la Gallia, la Sicilia e l’Africa, cioè che un uomo solo era il capo e l’architrave del dominio romano, che la città signora del mondo spariva sotto l’ombra di Scipione, che i suoi cenni prendevano il posto dei decreti del Senato e delle decisioni del popolo». Qui ritroviamo Scipione come un uomo «smarrito», secondo Breccia, «nel labirinto della politica romana, senza più riuscire a essere utile né a se stesso né alla repubblica che aveva finito per temerlo più di quanto non lo avesse amato».

Contro di lui furono assestati colpi durissimi che gli provocarono un’amarezza senza limiti dato che — come è definitivamente accertato — «aveva sempre evitato di forzare la costituzione». Semmai, unica sua colpa individuabile, era stato eccessivamente indulgente verso i propri familiari. Inoltre, secondo Breccia, peccò anche «per ingenuità, tracotanza, eccesso di fiducia nel prestigio di cui godeva presso i concittadini». Ma, giunta l’ora della verità, Scipione decise di non rispondere alle accuse. Si produsse invece in un colpo di scena: ricordò agli astanti che quel giorno cadeva l’anniversario di Zama e li invitò a seguirlo sul Campidoglio, dove avrebbe reso omaggio a Giove Ottimo Massimo. Cosa che tutti fecero. Quel gesto, invece che solo un escamotage per sottrarsi alle imputazioni, fu considerato (e forse voleva esserlo) un atto di resa. E non gli giovò. Resosene conto, dopo quella cerimonia, Scipione lasciò Roma, si ritirò nella sua villa di Literno dove poco tempo dopo, all’età di 52 anni, morì (183 a.C.). Al suo decesso nessuno volle ricordare che era stato merito suo se «le legioni avevano iniziato a trasformarsi nel migliore esercito del mondo antico». E non si parlò neanche del fatto che «grazie alle sue vittorie il dominio di Roma si era ormai esteso su tre continenti». In compenso — se vogliamo dire così — saltò del tutto anche il processo per il «tradimento» in complicità con Antioco. Dopodiché, i suoi avversari, fa osservare Breccia non senza perfidia, «raggiunto lo scopo, lasciarono cadere le accuse». Come, da allora in poi, è sempre accaduto.

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