L’#emozione che chiamano #letteratura. Arte, scrittura, editoria. #Platone, Beckett e Borges di Roberto #Calasso (Repubblica, 19/9/16)
Venne un giorno, nel 1961, in cui fu data la notizia del Premio Formentor assegnato a Borges e a Beckett. Ricordo quel giorno e l’impressione che fosse un premio illuminato, anche se nessun ex aequo è mai giusto. E pareva evidente il fondamento della scelta: la letteratura. Questa singolare parola, dopo essere passata per tante avventure, e a lungo essere stata ritenuta molesta o soltanto funzionale, a un certo punto della sua vita, al tempo di Hölderlin e di Novalis, era diventata come il jinn uscito dalla bottiglia e, sottratta a ogni costrizione, aveva cominciato a vagare, mescolandosi con tutto, senza pregiudizi e senza preclusioni. Nascondendosi in ogni pertugio di ciò che appare, accettava una vita clandestina, da cui però riaffiorava dopo
aver assorbito in sé tutto ciò che aveva attraversato. A che patto? Se vista da fuori, non troppo cambiava, se non una certa torsione delle forme. I sonetti potevano rimanere sonetti, ma se li scriveva Baudelaire trasmettevano quello che Hugo chiamò “un frisson nouveau”. Si trattava soltanto di un brivido, aleatorio ed effimero? O la letteratura stessa rischiava di diventare un solo, grande brivido? Di fatto, una volta sommerso quell’ordo
rerum che era garantito dalla retorica, il brivido nuovo fu ciò da cui, per almeno un secolo, si è riconosciuta la letteratura.
Fu in quel periodo che avvenne anche un’altra, più discreta, conquista. Nessuno la rivendicò, ma alcuni la praticarono, con somma perizia. La conquista consisteva in questo precetto: Tutto può essere considerato letteratura. Borges ne fu l’ineguagliato maestro e praticante. Era una grande liberazione e un’immensa espansione di territorio, che andava insieme a un altro precetto questa volta taciuto, secondo cui la letteratura stessa non doveva essere definita. Fra il giugno e il luglio di quest’anno è avvenuta – nella sempre utile rubrica delle lettere del Times Literary Supplement – una curiosa schermaglia: si dibatteva se Platone potesse essere considerato “grande letteratura”. Evidentemente a uno dei due interlocutori non era giunta notizia di quella remota conquista di cui sto parlando, secondo la quale non solo Platone, con ogni evidenza, ma anche quell’arcaico oggetto che è un elenco del telefono può essere considerato come letteratura. Ben lo sapeva Georges Simenon, che li sfogliava come poemi epici, alla ricerca di nomi per i personaggi dei suoi romanzi.
Ma quali ulteriori conseguenze comporterà questo modo di considerare tutto come letteratura? Certamente non toglierà nulla alla durezza e crudezza di ciò che è. Eppure avrà un effetto benefico, il sollievo del respiro, comparabile a quello dei “mattoni naturalmente perforati”, svayamatrnna, che venivano inseriti in punti strategici nella superficie compatta dell’altare vedico del fuoco. Qual era la loro funzione? Secondo lo Shatapatha Brahmana, «la pietra naturalmente perforata è il soffio, perché il soffio si scava la via da solo nel corpo». Era un’irruzione del vuoto in mezzo all’uniforme pieno.
Così, di fronte e di lato a tutte le squadrate certezze che ci circondano – scientifiche, religiose, filosofiche, politiche, economiche e di qualsiasi altro genere –, tutte ultimative e pur sempre oppressive, le pietre perforate della letteratura lasciano intravedere qualcosa che non pretende neppure di essere una certezza, ma se mai una forma e un modo di accostare forme, al solo fine di contemplarle. Perché per l’artista, come una volta ha scritto Kundera, «la forma è sempre più che una forma».
Ma proviamo a tornare dai Veda all’anno 1961, quando vennero premiati, qui, Borges e Beckett. Che cosa è accaduto da allora? Quale processo ha agito durante le successive ere geologiche? A prima vista – e se considerata nella sua informe compagine –, si direbbe che la letteratura sia entrata in una fase di latenza. Il nome stesso non sa più bene dove e fin dove applicarsi, anche se opere eccellenti hanno continuato a manifestarsi in questi anni. E un punto appare evidente: gli obiettivi smisurati, che erano comuni a scrittori così opposti come Musil e Joyce, non sembrano più attuali. Eppure, quando Beckett diceva che la mira dello scrivere era fallire meglio, aveva ancora in mente quegli obiettivi. Che oggi, a quanto pare, si sono dileguati. Nietzsche parlò dell’ “occhio mitico”, ancora vivo nella Grecia classica. Ma c’è anche un occhio letterario, che periodicamente si appanna o si risveglia. E sarebbe inutile cercare nella letteratura stessa l’origine di quell’appannamento, che è invece una fra le tante conseguenze di un processo ubiquo e sconvolgente. Processo che ha dissestato l’intera forma di vita occidentale – e potrebbe essere definito come un esacerbarsi della confusione delle lingue. In mezzo a questo vortice in espansione, la letteratura è stata solo un luogo circoscritto e privilegiato dove si potevano avvertire le avvisaglie di ciò che stava accadendo. Un segnale non trascurabile di questo corso degli eventi si può incontrare in un articolo del remoto 1839, pubblicato da Sainte-Beuve sotto il titolo ominoso De la littérature industrielle. Dove basterà isolare una frase: «L’industria penetra nel sogno e lo plasma a sua immagine, mentre si rende essa stessa fantastica come lui». È inevitabile vedere in queste parole una anticipazione di quella che Adorno chiamò “industria culturale”, espressione che oggi suona antiquata e paludata per descrivere qualcosa che avvolge il pianeta come una pellicola impenetrabile – o, se si vuole, una variegata nube informatica. Come ritrovarvi la letteratura? Sarà impresa ardua, proseguiva Sainte- Beuve, perché nel nuovo mondo che allora – lo ricordo: nel 1839 – si annunciava, «chiunque, una volta almeno nella sua vita, avrà avuto la sua pagina, il suo discorso, la sua pubblicità, il suo brindisi, sarà autore».In Quando Andy Warhol, nella stessa decade in cui ebbe inizio il Premio Formentor, disse che ormai chiunque sarebbe stato celebre per quindici minuti, plausibilmente ignorava che si stava rivelando in quel momento come un puntuale e conciso prosecutore di Sainte-Beuve, anche se una totale incompatibilità fisiologica li separava.
Ogni forma della letteratura, che lo voglia o no, è invischiata in questa superficie fremente e ubiqua. Quella attrazione per la clandestinità e il camuffamento, che fu la vocazione di ciò che venne chiamato “il moderno” e oggi appare come un relitto obsoleto, nel frattempo è diventata una necessaria misura di autodifesa e sopravvivenza. E l’unica stella polare rimane un’esperienza di ciò che veniva chiamato samvega e, nelle parole di Coomaraswamy, valeva a «denotare lo shock o la meraviglia che si può provare quando la percezione di un’opera d’arte diventa un’esperienza essenziale». Per la letteratura non sussiste altra prova, né altra verifica. Come si legge in Plotino: davanti a una pittura che rimanda a qualcosa di ulteriore, in colui che guarda «per l’emozione si muovono gli Eros».
Paragonando il qui e ora della letteratura con quel giorno del 1961, un’altra considerazione si impone: difficilmente oggi un gruppo di editori troverebbe un terreno comune su cui scontrarsi, lasciando alla fine due guardiani della soglia equiparabili a Borges e Beckett per suggellare la pace. E difficilmente si troverebbe un pubblico diffuso, corrispondente a una ormai fantomatica République des Lettres, che possa approvare le motivazioni di quell’accordo finale. Tanto più felice appare allora il fatto che in questo magnifico luogo, dove sembra essersi raccolta la grazia del cielo, un gruppo di persone affini si sia ritrovato per far continuare una storia improbabile e luminosa, di cui ho accennato qualche scheggia. E tanto maggiore è la gratitudine perché la loro attenzione si è incrociata con i libri di chi vi parla.