Leggete #Omero (ma anche Dante), solo allora capirete vostro padre

Di Alessandro Piperno (La Lettura 11/3/18)

Ormai ho capito che i libri che mi piacciono sono quelli che se qualcuno mi chiede «di che parla?» non so cosa rispondere ma poi appena finiti non vedo l’ora di scriverci su qualcosa. Del resto, il complimento più sincero che io possa fare a un collega scrittore è: leggerti mi fa venire voglia di scrivere.

Non è la prima volta che un libro di Daniel #Mendelsohn mi incastra in una così bizzarra aporia espressiva. Capitò anni fa quando mi entusiasmai dei suoi Scomparsi . Mentre leggevo non riuscivo a capire cosa mi avvincesse delle settecento e passa pagine di investigazione intorno alla tragedia di un certo zio Shmiel, una delle milioni di vittime sommerse dei massacri hitleriani, per lungo tempo penosamente rimossa dalla famiglia dell’autore.

Solo in seguito, scrivendone, compresi che l’entusiasmo, se ha senso chiamarlo così, derivava dalla sintonia tra elaborazione sintattica, nettezza argomentativa e divagazioni erudite.

Con una simile armatura stilistica, pensavo, puoi affrontare qualsiasi battaglia letteraria: confessioni intime, interni di famiglia, speculazioni filosofiche. Un cocktail capace di trasmutare una materia vieta, e in un certo senso fetida, come l’Olocausto, in sostanza viva e incandescente.

Leggendo Gli scomparsi pensavo a Lanzmann, a Sebald, a Polanski, insomma a chiunque avesse scelto di affrontare l’orrore evitando generalizzazioni estetizzanti o apocalittiche, a favore di scorci propizi e dettagli specifici.

Ci risiamo. Ecco che dopo un bel po’ di anni il suo nuovo libro m’induce a pormi la stessa domanda di allora: chi è Daniel Mendelsohn e che razza di libri scrive?

In patria è noto sia come critico militante (autorevole, spietato), sia come filologo classico erede di una solida tradizione accademica. A me è capitato di incontrarlo due o tre volte, e mi ha sempre intimorito. Un po’ perché sono sensibile allo charme della celebrità e al carisma intellettuale, un po’ perché Mendelsohn — eloquenza rotonda, impeccabile silhouette, sorriso canzonatorio di chi la sa lunga — è abile nel tenerti a distanza.

Ho ritrovato in lui la vitalità dell’oratore appassionato, e ho avuto modo di apprezzare il rigore di chi coltiva un’estetica che non stento a definire giapponese: la bellezza, ovunque si annidi, è scintillante e fragile come uno specchio d’acqua ghiacciato in una bella mattina di febbraio.

Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea è un titolo a dir poco didascalico. Parla del seminario sull’ Odissea tenuto dal professor Mendelsohn nell’inverno del 2011 per i ragazzi del primo anno del Bard College di New York.

Ciò che rese memorabile quel semestre di lezioni fu un imbucato imprevisto e improbabile: il padre di Mendelsohn, l’ottantunenne Jay, burbero, tostissimo matematico del Bronx. Fu lui a chiedere al figlio di poter seguire le sue lezioni. Poi, qualche mese dopo la fine del corso, padre e figlio decisero di condividere una bella crociera sui luoghi omerici.

L’impianto di Un’Odissea è assimilabile a quella degli Scomparsi .

Un piccolo evento familiare innesca una ricognizione sulla propria genealogia dagli esiti imprevedibili.

C’è un viaggio (decisamente più rilassante di quello intrapreso nel libro precedente) nella vecchia Europa. Se negli Scomparsi il tutto era tenuto assieme dall’esegesi biblica, qui a fare da sfondo c’è l’ Odissea tanto da ricalcarne sfacciatamente la struttura: Proemio, Telemachia, Apologoi, Nostos…

Ciò permette a Mendelsohn di dare voce a entusiasmanti dilemmi filologici e a questioni morali poste dal poema omerico in merito a eroismo, amore filiale, dissimulazione, fedeltà coniugale. Ma anche di dare conto delle suggestioni ricevute dagli studenti, e del contegno sconcertante tenuto dal padre: la bellicosa ostilità di Jay Mendelsohn sia nei confronti di Odisseo (e questo sarebbe un eroe?) che per i metodi di insegnamento del figlio.

Sarebbe gretto a questo punto notare con un po’ di impertinenza come Mendelsohn non sia certo il primo scrittore nella storia della letteratura che ricorra alle figure epiche di Ulisse, Telemaco e Penelope per dare il senso di una famiglia disfunzionale. Così come sarebbe facile notare come i battibecchi tra il professore e gli studenti facciano il verso a Leggere Lolita a Teheran .

La verità è che né la prima notazione, tanto meno la seconda, spiegano perché a mano a mano che ti addentri nelle pieghe di questo libro ti scopri sempre più sorpreso e avvinto.

Il rischio da evitare è dare troppo peso alla dialettica padre-figlio: lo scienziato e il classicista, l’uomo rude privo di buone maniere e il dandy, l’etero e il gay, e via discorrendo. Per capire quanto è prezioso e affascinante questo libro occorre immergersi nel cuore profondo dell’ispirazione di Mendelsohn, il motore che dà ritmo alla prosa.

Lasciate che mi spieghi meglio.

In esergo a Gli scomparsi c’è una frase tratta dalla Prigioniera di Proust: «Superata una certa età lo spirito del bambino che era in noi e le anime dei nostri defunti profondono ricchezze e incantesimi su di noi…».

Mai epigrafe fu più utile a un recensore per aiutarlo a esprimersi. La mezza età porta con sé una scoperta che di primo acchito si configura come una beffa. Dio santo, hai lottato per liberarti dal giogo degli avi, emanciparti dall’autorità dei Penati. Ed ecco che quando meno te l’aspetti tornano a chiedere il conto. Possibile che solo ora, all’apice della maturità intellettuale, prenda atto che lo spazio di libertà dai tuoi atavismi genealogici è così risicato? Ti guardi allo specchio e non ti piace quello che vedi. Papà, mamma, i nonni e persino i trisavoli di cui hai solo sentito parlare: sono tutti lì nel tuo bel naso adunco. Di solito la gente fa di tutto per non lasciarsi troppo condizionare dall’apparizione di questi spettri. Una scrollata di spalle e via.

Ma ci sono anime affilate — e quella di Mendelsohn è affilatissima — che non se la sentono di volgere la testa dall’altra parte, che sono naturalmente portate all’ascolto, che non chiedono di meglio che capire, dare un senso retrospettivo al passato, perché ne hanno bisogno, ne hanno fatto quasi una religione.

Che sia il passato tragico della famiglia, quello drammatico dell’infanzia, quello di un rapporto mai risolto con un padre difficile, o quello epico degli eroi omerici le cui gesta non smettono di ispirarci, non c’è nulla che sia accaduto che non ci riguardi.

Commentando la famosa gita nell’Ade di Odisseo dell’undicesimo libro, Mendelsohn conclude: «La posizione strategica di questo episodio suggerisce una morale importante: per poter avanzare nel futuro, bisogna prima riconciliarsi con il passato». E mi verrebbe da aggiungere che non c’è riconciliazione che non passi attraverso una nuova interpretazione. Più di una volta, durante il suo seminario, Mendelsohn si chiede come possono i suoi studenti capire la forza del passato. «Sono talmente giovani, pensai mesto, il loro passato è così vicino al loro presente che non sentono alcun bisogno di escogitare un modo per riconnettere l’uno all’altro».

Intendiamoci, tale riconnessione non indulge in alcun feticismo antiquariale. Capire il passato non significa venerarlo, trattarlo con la cura che si presta alle reliquie. Capire il passato significa sfidarlo, e quindi prenderlo seriamente.

Sperando che ciò non allontani preventivamente i lettori, mi viene da dire che questo libro bellissimo è un inno alla filologia, nell’accezione più vasta e commovente che le si può attribuire.

Parafrasando Sartre si potrebbe dire che la filologia è un umanismo.

I grandi libri — Bibbia , Odissea , Commedia — sono lì per essere letti e interpretati, generazione dopo generazione. Mendelsohn pare non credere in altro.

«Solo attraverso una lettura ravvicinata possiamo capire qual è il quadro più ampio e come i diversi pezzi, i piccoli tasselli, si combinino tra loro. In questo consiste l’interpretazione, ed è questo lo scopo della filologia. L’interpretazione non è un’impresa soggettiva, abborracciata; si fonda su un esame scrupoloso dei dati, e i dati sono quello che c’è nel testo».

Ecco perché esiste una fatale interdipendenza tra filologia e memoria. Entrambe aborriscono ogni forma di generalizzazione e si nutrono di elementi esclusivi e singolari.

Stare attaccati alle parole significa stare attaccati alle persone che le hanno scritte, e a tutte quelle che le hanno lette e commentate. Significa non tradirle.

Si tratta di un approccio al testo, e alle persone, straordinariamente ebraico. E mi viene da dire che quest’idea — che emerge in ogni riga dei suoi libri e di questo in particolare — fa di Mendelsohn un lettore, uno scrittore e docente decisamente migliore di me.

«Gli insegnanti migliori — scrive — sono quelli che ti spingono a trovare un significato nelle cose che hanno dato loro piacere, così che l’apprezzamento di quella bellezza sopravviva alla loro esistenza. In questo senso — dato il comune presupposto di accettare l’inevitabilità della morte — essere bravi insegnanti è un po’ come essere bravi genitori».

Il passato di una famiglia, allora, non è poi così diverso da quello che puoi trovare nei libri. È vita.

Che non sia questo ciò che induce Mendelsohn a ritenere non senza enfasi di non aver mai davvero conosciuto suo padre prima di cominciare «a leggere seriamente i classici»? E mi chiedo se io non possa dire altrettanto.

La letteratura non mi ha certo insegnato a vivere ma mi ha permesso di capire un sacco di cose di me e della mia famiglia, e non tutte bellissime.

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