“#Latino Idee, proposte, interventi: uno spazio per discutere” di Nicola Gardini (DOMENICALE di Repubblica, 4/12/16)
Dai tempi dell’università non mi capitava di pronunciare e di sentir pronunciare la parola “latino” così numerose volte nel corso della giornata. E quotidianamente. E ormai da vari mesi. E nei posti più diversi, in giro per l’Italia e per l’Europa: Francia, Olanda, Germania, Inghilterra; nelle scuole, nei festival letterari, alla radio, nelle mail dei lettori o al telefono con gli editori. Il nostro vecchio continente non parlerà più latino, ma parla ininterrottamente
di latino. I predicatori di un nuovo futurismo, i cultori delle scienze cosiddette dure ( esistono forse da qualche parte quelle molli?), gli svogliati e i nemici della complessità non lo avranno abbastanza a cuore da volerlo mantenere nei programmi scolastici, ma la gente il latino lo ricerca, perfino lo insegue. Chi in Italia pretende di sradicarlo dalla scuola secondaria e di confinarlo nella ben separata serra di qualche accademia dovrà prima o poi rassegnarsi a vederlo proliferare un po’ dovunque, come i papaveri tra le rovine. Sta già succedendo. I presupposti per la diffusione di corsi di latino per tutti ci sono. So di molti che già lo studiano da soli, pentiti di non averlo cominciato prima, in giovinezza. Spontanei focolai d’interesse, d’altra parte, sono normali in quei paesi, come la Francia o l’Inghilterra, che ne hanno reso facoltativo lo studio anche nei licei di tendenza umanistica.
Ho usato il termine “gente” nel senso più comprensivo: donne e uomini, giovani e non giovani, qualunque categoria professionale, dall’operaio all’intellettuale all’economista al giurista allo scienziato. Presentando il mio saggio Viva il latino, sono spesso esortato a intervenire sul concetto di utilità del latino. Occorrerebbe piuttosto parlare di necessità.
Il latino è parte del sapere, di tutto il sapere trasmesso e trasmissibile, elaborato e ancora elaborabile. Nel sapere, che è l’insieme armonioso di tutte le rappresentazioni possibili dell’universo ed è dunque prevalentemente studio del passato (anche la fisica, con buona pace dei neo- futuristi, ha sguardo retrospettivo), si può riconoscere solo la necessità delle parti. Che cos’è, dunque, la necessità del latino, o una delle sue tante necessità (queste variano secondo la prospettiva da cui si osserva il sistema)? Per quale ragione ogni volta che mi capita di parlare pubblicamente della lingua di Cicerone, di Virgilio, di Ovidio o di Tacito non ho mai l’impressione di fare cosa obsoleta o specialistica, ma incontro incondizionata curiosità, attenzione continua, perfino emozione? Che cosa ci trova, insomma, la gente nel latino?
Ci trova e ci ritrova il sogno di una riuscita unità. Nel latino apparteniamo tutti a un ordine compiuto; un ordine antico, che non corre pericolo. L’antichità importa agli esseri umani tanto quanto il futuro. Il presente è solo equilibrio tra immagini dell’una e dell’altro, e sarà tanto più felice quanto più giusto sarà quell’equilibrio. Nel latino l’Europa da sempre tanto rincorsa e oggi prossima a sfaldarsi come un riflesso sull’acqua sta ferma, si tocca, rimane una certezza, compatta in una sua tenuta originaria. Il latino — ecco una delle sue necessità — è la lingua dell’Europa.
Ma non facciamo confusione. È importante tenere a mente che qui si tratta del latino scritto, del latino in cui la grande letteratura ha definito immaginazioni ed etiche. Non sto pensando neanche per un momento che il latino come la lingua d’Europa sia cosa parlata (questo pensiero lo affido alle ambizioni di altri). Il latino come lingua d’Europa sta nel pensiero, non nella bocca. La sua necessità consiste proprio nella sua natura scritta, in quella invariabilità di testimonianza superstite nonostante tutto. In tal modo si sottrae a tutti gli arbìtri della contingenza, alla quotidianità dei commerci, alle violazioni del senso; perfino alle leggi di trasformazione fonetica e semantica che presiedono alla storia degli idiomi. La gente ama il latino perché nel latino identifica il codice di un significare esatto, incontrovertibile, un deposito di senso che non si lascia contaminare dalle visioni particolaristiche e dalle guerre di opinione, e neppure dall’inevitabile marcia del tempo.
Pochi giorni fa a Valdagno, al termine di una mia presentazione, un diciottenne mi ha domandato dal fondo della sala quali sono le parole del latino che più dovrebbero avere rilevanza per noi. Sono stato contento di questa domanda, perché proprio le parole sono il punto. Quando ne va della felicità collettiva e dell’armonioso sapere, “latino” non vuol dire né liceo d’altri tempi né grammatica inutile né cultura elitaria, come gli oppositori pretendono e come molta pubblicistica, trascinata nella mischia, si ritrova a ripetere: latino vuol dire vocabolario essenziale di idee; sicurezza dei concetti; riserva incontaminata di valori.
Officium… Fu la prima parola che suggerii in risposta. Il servizio agli altri, il senso del dovere, l’impegno a non tradire e a non tradirsi. Chi vuole saperne di più non ha che da aprire Cicerone, il cui saggio sugli officia ha fatto scuola (il Principe di Machiavelli, che ha fondato un’altra scuola, ne è a tratti una puntuale palinodia). Pietas: il rispetto della vita e delle cose grandi, da non confondere affatto con il nostro banale senso di “pietà”. Virgilio ci spiega bene nell’Eneide che cosa comporti la pietas: una gran forza di volontà, lo sforzo di andare anche contro il proprio comodo. Ingenium: la natura individuale, l’istinto, l’identità profonda di ciascuno, l’immodificabile che è in ciascuno, e che può rivelarsi nelle forme più alte anche come creatività (la parola contiene la radice gen-, che indica la nascita: donde altre parole come gen- us, gen- s, gentilis,etc.). Da non confonderlo, però, con l’ingegno o l’ingegnosità, o l’ingegneria. L’ingenium è di tutti; è la marca dell’individualità, il mistero dell’essere che ognuno porta in sé. Otium: il saper stare in disparte, il perseguire la compagnia della propria mente, l’osservare la società da una certa distanza. Niente a che fare con l’inconcludenza. L’otium è il piacere del ritiro, è riflessione. È il tempo libero che consente la concentrazione, la scrittura e lo studio, sempre minacciati dalle intrusioni stolte.
Ma c’è anche il vocabolario delle cose cattive. Anche quello ha grande importanza, perché il latino le cose cattive, così come quelle buone, non le consegnava solo alla scienza della psiche, ma le definiva sempre e comunque in rapporto alla sfera pubblica. Ecco anche perché il latino è necessario: perché ci riporta continuamente alla dimensione collettiva pur del sentimento più privato; perché il latino è lingua in cui nessuno fa a sé; in cui ciascuno è responsabile in ogni momento della sua esistenza davanti al mondo. Invidia: “odio”, poi anche “invidia” (detta in latino purelivor). È il malvolere, il desiderio di nuocere a tutti i costi. Concetto politico di grande rilevanza, da avere ben chiaro nella testa quando si tenta di capire i meccanismi della collettività. Fortuna: l’imprevisto, l’imponderabile… Se ne parla sempre troppo poco, perché la tecnologia e i demagoghi diffondono l’illusione che abbiamo il controllo totale degli eventi. Furor: la distruttività inarrestabile, che sia suscitata dalla passione politica o da quella amorosa. Ce la spiegano bene Catullo, i soliti imprescindibili Cicerone e Virgilio, Seneca… Se ne potrebbero aggiungere ancora di parole latine. Ma in fondo ne bastano solo alcune perché cominciamo ad avvertire il desiderio di capire meglio le nostre (italiane francesi inglesi etc.), a volere definire anche queste con rigore e con giudizio, ricostruendovi un destino comune. La necessità europea del latino è anche questa: saperlo dovunque, anche là dove non lo sappiamo più vedere.
L’autore Nicola Gardini (1965) è professore di letteratura italiana e comparata presso l’Università di Oxford. Il suo ultimo libro è “ Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile” (Garzanti, 2016)
Grazie ancora Licia.