L’altra #verità su #Spartaco
Giovanni #Brizzi propone un‘interpretazione originale del sanguinoso conflittoin un saggio edito dal Mulino. Numerosi indizi suggeriscono che l’autentica posta in gioco fossero i diritti delle popolazioni che reclamavano la cittadinanza
di Paolo Mieli (Corriere 7/11/17)
Non guidò masse di schiavi fuggiaschi ma gli italici in rivolta contro Roma
È giunto il momento di aprire il dossier dell’«altra Italia», quella del mondo appenninico e meridionale che fino all’inizio del I secolo a.C. prese più volte le armi contro Roma. E lo fece in conflitti che, pur assai diversi tra loro, ebbero, però, in questa costante ostilità uno speciale filo conduttore. Un filo conduttore già intravisto in passato, ma che è oggetto adesso di un interessantissimo e approfondito studio di Giovanni Brizzi, Ribelli contro Roma. Gli schiavi, Spartaco, l’altra Italia , edito dal Mulino. Prima Annibale, poi Silla che cercò di reclutare gli Italici alla sua causa, infine Spartaco, tutti provarono a far leva sull’«altra Italia». E in più occasioni quest’«altra Italia» fu sul punto di travolgere la città più importante dell’epoca.
La storia ricostruita da Brizzi ha inizio con la Seconda guerra punica (218-202 a.C.) che, secondo lo studioso, avviò una serie di processi «gravidi di conseguenze funeste». E, se si può dire che le spese sostenute dall’erario della Repubblica erano state molto, molto grandi, si può altresì documentare che «le distruzioni e i danni, anche permanenti subiti dalla penisola durante i quindici anni di presenza cartaginese» erano stati «spaventosi». Le città prese da Annibale (e successivamente riconquistate dai Romani) furono ben 400. Molte di queste 400 città furono distrutte e date alle fiamme, le altre «ripetutamente espugnate e messe a sacco dalle parti in lotta». Con danni specifici per l’Italia del Sud: «I campi del Meridione furono per anni sistematicamente devastati e brutalmente sfruttati dagli opposti eserciti, intere popolazioni conobbero la deportazione in massa». Ciò che produsse la fuga dei contadini dalle loro terre (la Lucania e l’Apulia rimasero quasi deserte) e, assieme ad essa, la crisi irreversibile della piccola proprietà, progressivamente assorbita nel latifondo.
Il latifondo, d’altra parte, poté svilupparsi esclusivamente in virtù dell’utilizzo di schiavi, un grande utilizzo di schiavi. Di tale sfruttamento della manodopera servile si occuparono due autori greci, Strabone e Diodoro Siculo, contemporanei di Augusto, che avevano entrambi ampiamente attinto da Posidonio di Apamea, lo storico vissuto centocinquant’anni prima di loro. Il ricorso agli schiavi era già stato praticato in Sicilia in tempi precedenti. Ma, a seguito della sconfitta di Cartagine nella Seconda guerra punica (202 a.C.), i Siciliani godettero per sessant’anni di una immensa prosperità e tutti quelli che avevano estensioni di terra acquistavano, per poterle coltivare, enormi quantità di nuovi servitori. In quali condizioni vivevano questi schiavi? Alcuni «erano tenuti in catene, altri erano gravati di lavori pesanti e in modo infame venivano tutti marchiati a fuoco», riferisce Diodoro; la Sicilia intera — dove la schiavitù introdotta prima dai Punici e poi dai Greci era praticata da almeno tre secoli — fu all’epoca «gremita da una massa di schiavi» in una misura che ancora adesso appare davvero «incredibile». I padroni di questi schiavi si distinguevano per «arroganza, avidità e crudeltà». Ma le prime sommosse, in realtà, non si ebbero in Sicilia, bensì a Sezia e a Preneste nel 198 a.C. e poi ancora in Etruria due anni dopo. Si trattava di schiavi provenienti dalle «città fedifraghe», quelle cioè che nel corso della guerra avevano parteggiato per Annibale. In queste aree geografiche si erano diffuse — in particolare nelle grandi fattorie dell’Apulia ma non solo — società segrete dedite ai culti misterici di Dioniso e di Proserpina. Culti di cui Catone il Censore, intuendone la carica ideologica, chiese fin dagli inizi una decisa repressione. Secondo Appiano, il tribuno Tiberio Gracco si allarmò per quello che stava accadendo in Sicilia a causa della concentrazione di grandi masse servili e fu il primo a predicare — anche sulla base di acute considerazioni in merito alle possibili conseguenze di questa proliferazione della schiavitù — il ritorno alla piccola proprietà coltivata da liberi contadini. La rivolta siciliana scoppiò nell’autunno del 135 a.C. e fu domata solo nel 132 a.C. dal console Publio Rupilio. Ideologo di questa grande sommossa fu il carismatico siriaco Euno, che assunse il nome di Antioco. Euno, racconta Brizzi, si propose — come poi avrebbe fatto Spartaco — quale «vate di una realtà migliore», puntando a trasformare gli schiavi in combattenti. Come poi Spartaco, che vietò di introdurre oro e argento negli accampamenti, Euno «impose una spartizione rigorosamente equa della preda e, sembra, non permise se non in due circostanze soltanto che i prigionieri romani fossero costretti a battersi come i gladiatori». Inoltre bandì il saccheggio e incoraggiò «il rispetto di una proprietà che ebbe a soffrire piuttosto — a quanto riferisce Diodoro — dal rancore di quel libero proletariato che si era unito alla rivolta».
Trent’anni dopo, nel 105 a.C., esplose una seconda insurrezione che fu sconfitta solo quattro anni dopo, nel 101 a.C., dal console Manio Aquilio. E Spartaco? Brizzi è convinto che la sua sia tutta un’altra storia e che sia riduttivo considerarlo esclusivamente il capo di una rivolta servile. È chiaro, scrive, «che tra i suoi seguaci vi furono anche schiavi; ma le energie più consistenti e autentiche che alimentarono quella rivolta furono forse altre». Le «vere» rivolte degli schiavi, quelle siciliane, avevano costituito, secondo lo storico, «una sorta di drammatico preludio rispetto alla nuova, interminabile sequenza di lotte intestine che per venti lunghissimi anni bruciarono come in una fornace la gioventù italica e insieme quella romana, opposte su tutti i campi di battaglia della penisola». Seguirono altri anni di guerra civile e l’«avventura di Spartaco» si inserisce con caratteristiche peculiari in questo interminabile conflitto. Conflitto che si produsse — ed è qualcosa da tenere bene a mente — lungo una linea fissata con efficacia da Santo Mazzarino: all’epoca «solo la parte a destra degli Appennini si può chiamare propriamente Italia; quanto all’altro versante, quello che digrada verso lo Ionio, ora anche questo è chiamato Italia, ma sono Greci coloro che abitano lungo la costa ionica; e il resto l’occupano i Celti». Due Italie diverse, insomma. Tant’è che gli scontri avrebbero avuto termine solo con la piena unificazione della penisola ad opera di Augusto.
Tornando a Spartaco, Brizzi dubita, tra l’altro, che fossero davvero tutti schiavi i seimila uomini crocefissi lungo la via Appia allorché la rivolta fu domata. Ricorda che «al termine del primo conflitto combattuto in Sicilia, a conclusione di quella che potremmo definire forse la più autentica tra le guerre servili, gli schiavi non vennero uccisi, bensì restituiti ai loro padroni, nel rispetto di una proprietà nei confronti della quale i Romani mostrarono allora massima considerazione». Con Spartaco le cose andarono in modo diverso. Molto diverso. E questa differenza, secondo Brizzi, «potrebbe essere stata motivata non dal differente momento storico, ma dalla diversa natura del nemico, così almeno come veniva percepita». Nel 71 a.C. è probabile che la caratteristica attribuita ai seimila seguaci di Spartaco crocefissi fosse quella («imperdonabile per i Romani») di «ribelli a oltranza». E forse «si volle dare un definitivo, atroce esempio a chiunque intendesse ripercorrere la strada di quanti, neppur dopo Silla, si erano lasciati piegare dalle recenti tragiche disfatte».
Racconta Appiano che, in procinto di misurarsi ancora una volta con Roma, Mitridate ritenne di poter contare sugli Italici poiché sapeva che «recentemente quasi tutta l’Italia per odio si era ribellata ai Romani e a lungo aveva fatto loro guerra, e contro di loro si era unita al gladiatore Spartaco». Se questo è vero, si domanda Brizzi, «da che cosa gli ex alleati poterono essere indotti, pur dopo la concessione della cittadinanza, a una nuova, sanguinosa rivolta, a capo della quale finirono addirittura per accettare un gladiatore trace?». Certo, concede l’autore, «lo strazio della guerra civile e le proscrizioni, gli espropri sillani e la miseria nata dal conflitto: fattori, questi, che, certo, contarono tutti». Ma la risposta più autentica alla domanda posta poc’anzi «può forse essere cercata in una significativa anomalia». Quale? Il tentativo compiuto dai censori eletti per l’anno 89 di contare tutti i cittadini, compresi quelli più recenti, era andato incontro al fallimento più completo; e un censimento regolare si era tenuto successivamente solo nell’86-85 a.C. In questa seconda circostanza però — malgrado il dato ancora una volta inequivocabile dello stesso Appiano secondo il quale «i nuovi cittadini superavano largamente per numero i vecchi» — rispetto ai 395 mila circa censiti alla fine del secolo precedente, ne erano stati computati 463 mila, «con un incremento assolutamente irrisorio di 68 mila soltanto». Pochi, troppo pochi furono quelli che avevano effettivamente ottenuto la cittadinanza. Cosa che non poteva non destare il malcontento degli Italici.
Spartaco ebbe l’astuzia di farsi interprete di questo malcontento. Forse in un primo momento si calò nei panni di un «comandante vittorioso venuto dall’Oriente», di cui qualcuno proprio in quel momento storico aveva vaticinato l’avvento. Ma quella del «comandante» che prima o poi sarebbe entrato a Roma accolto come un trionfatore fu un’illusione di breve durata. Escluso dal mondo delle città, sostiene Brizzi, Spartaco «tornò, sia pure con speranze sempre più fievoli, a cercare nuovi alimenti alla lotta in quella seconda Italia che per secoli aveva combattuto contro Roma; e che prima durante la guerra sociale, poi durante la guerra civile sillana, era stata sconfitta senza però essere stata ancora completamente domata». Ed è forse «per esorcizzare questa immagine, e soprattutto per dimenticare che una parte cospicua dell’Italia di allora aveva seguito un gladiatore trace contro la res publica , che — con l’eccezione di Sallustio (e, parzialmente, di Appiano…) — quasi tutta la storiografia romana sembra aver deformato la figura di Spartaco in una maschera, che sovrapponeva alla sua identità reale l’immagine dello schiavo fuggiasco». E, allo scopo di infangarlo, del «gladiatore partecipe della peggior condizione umana» (Floro), della «belva insensatamente scatenata contro lo Stato egemone».
Così un esercito fatto di genti che provenivano dalle aree montuose del Meridione d’Italia fu identificato con la figura di quel capo di una «rivolta servile», un personaggio che non avrebbe potuto nutrire altra aspirazione che quella, «nobile ma limitata», alla libertà individuale o, al più, sognare, sottolinea Brizzi «un ritorno a una patria che egli, invece, rinunciò fino dall’inizio a perseguire». Ma in realtà Spartaco non fu niente di tutto questo. Fu piuttosto il ribelle con la cui morte si chiuse di fatto una ferita aperta da secoli. Nell’arco di diciotto anni appena l’Italia aveva conosciuto ben tre feroci guerre intestine («poiché di questo, in realtà, si era trattato», scrive Brizzi, «anche nell’ultimo caso»); guerre che, «se alquanto diversi erano stati gli spunti iniziali», avevano però invariabilmente attinto le principali energie «da un ben preciso serbatoio di instabilità». A chiudere la partita fu la decisione romana — guarda caso proprio dopo aver sconfitto Spartaco e aver esposto lungo la via Appia i corpi degli ultimi seimila ribelli crocefissi — di concedere finalmente agli Italici quello che anche Silla aveva tentato di garantir loro: la piena fruizione della cittadinanza. «Non può essere una coincidenza», fa notare Brizzi, «che, contro i 463 mila dell’atto precedente, il nuovo censimento del 70-69, il primo dopo la morte di Spartaco, registri nelle liste ben 910 mila cittadini, ai quali vanno aggiunti probabilmente i 70 mila uomini sotto le armi oltremare». Quasi un milione di persone. Ecco chi fu davvero Spartaco secondo Brizzi: «l’ultimo condottiero di un’Italia disperata e furibonda, da secoli in lotta con Roma che, pur nella morte, l’aveva, in fondo, portata alla vittoria». Dopo di lui altri cercarono di pescare almeno in parte dal fondo dello stesso barile: Catilina è uno di questi. O Lepido, il «console sovversivo» che si appoggiò ad alcuni capi «mariani» dispersi, altri «banditi», gli ultimi «Etruschi ribelli». Forze alle quali «aveva forse pensato già Spartaco nella sua infruttuosa puntata verso nord, venendone però rifiutato». Ma ormai la spinta si era esaurita, tant’è che l’autore considera Spartaco e non Lepido «l’ultimo vero conduttore della seconda Italia». Quanto a Roma, «ripensando a questi eventi nella sua più tradizionale storiografia, preferì dimenticare e rimuovere; come del resto già aveva fatto nei confronti degli infelici Sanniti, quando l’annalistica di età sillana aveva cancellato “ufficialmente” la sconfitta subita dalla stessa Roma nella prima guerra contro di loro, giungendo a stravolgere la cronologia degli eventi». Pratiche non inusuali in una storiografia avvezza a riscrivere il passato in funzione del presente.