la Repubblica 21/07/2004
#MaurizioBettini , Il #latino sotto l’ #Europa
E se l’Europa avesse semplicemente delle radici grammaticali? Non è un gioco di parole, è la domanda che ci si pone leggendo il libro che Françoise Waquet ha dedicato ai fasti della lingua latina nell’Europa moderna: Latino. L’impero di un segno (XVI-XX secolo) .
Negli ultimi tempi, infatti, all’Europa sono state attribuite “radici” innumerevoli: cristiane, giudaico-cristiane, classico-cristiane, semplicemente classiche, oppure greche, romane, ovvero greco-romane, e chi più ne ha più ne metta. Eppure, se c’è qualcosa che accomuna davvero l’Europa da un capo all’altro del continente, è lo studio del latino, ovvero sia della sua mirabile (o mirabilmente detestata) grammatica.
Dall’Italia alla Russia di Pietro III, dall’Olanda alla Germania, dalla Spagna alla Polonia, i giovani che aspiravano a farsi una cultura partivano tutti da lì: dalle “regole” della lingua latina, e spesso, nei vari paesi europei, venivano adottati i medesimi manuali. La grammatica latina fu addirittura materia di pertinenza reale, se è vero che, nel 1540, Enrico VIII stabilì per decreto quale fosse il testo da adottarsi in Inghilterra come Common o Royal Grammar, nella fattispecie quello composto da William Lilly.
L’Europa, insomma. affonda le sue radici in rosa rosae, il che spiegherebbe, fra l’altro, per-che il processo di unificazione si presenta così ricco di spine. E pazienza per la rosa, per la mensa, per la musa, e per tutti gli altri sostantivi della
prima declinazione in compagnia dei quali i giovani allievi si affacciavano al balcone del latino. Nelle lezioni successive, infatti, sarebbero giunti ben presto ai sostantivi irregolari della terza declinazione. E allora sì che cominciavano i dolori! Il piccolo Heinrich Heine, passando tutte le mattine di fronte a un Cristo crocifisso di legno grigio (“una grande immagine squallida che ancor oggi, certe notti, passa nei miei sogni e mi guarda triste con occhi fissi e sanguinanti”) implorava: “O tu, povero Dio ugualmente torturato, vedi se ti è possibile che io tenga a mente i sostantivi irregolari!”.
La scuola europea fu dunque, per secoli, un vero e proprio “paese latino”, proprio come il “quartiere latino” di Par-gi – oggi noto per le sue pizzerie e le sue false taverne greche – prese il proprio nome dai numerosi istituti di istruzione che vi avevano sede. In latino erane tenuti a parlare fra loro gli studenti anche durante le ore libere, regola che, si scopre, era peraltro scarsamente osservata in latino si tennero, talora fine all’Ottocento, le lezioni univer sitarie; in latino componevano versi gli studenti del liceo francese (costume al quale dobbia mo anche alcuni eccellenti carmi latini di Musset e Baudelaire); e fu infine grazie al latino molto più studiato, a scuola delle lingue nazionali, se tali lingue acquisirono nel tempi quei tratti sintattici e lessicali comuni che le rendono così sorprendentemente simili fra loro.
Accanto al “paese latino” l’altro centro di questo impero linguistico-grammaticale fu costituito dalla “fortezza del latino” ossia la Chiesa cattolica. La quale, nel Concilio di Trento sanci che il latino dovesse essere la lingua esclusiva della liturgia, così come fieramente respinse la possibilità che la Bibbia potesse essere tradotta nelle varie lingue “volgari”, secondo la prassi auspicata dai protestanti. Il che costituiva peraltro un discreto controsenso, visto che la Vulgata di San Gerolamo, sostenuta dalla chiesa di Roma, altro non era se non la traduzione latina di originali greci ed ebraici! Salvo che, secondo il Concilio Tridentino (e il principio fu ribadito anche dal Concilio Vaticano I ne11870), la Vulgata avrebbe ricevuto a suo tempo il diretto sostegno dello Spirito Santo: cosa che la rendeva una “traduzione” come minimo privilegiata.
Per quanto riguardava il problema liturgico, i vescovi in realtà si rendevano ben conto del fatto che, celebrata in latino, la messa risultava incomprensibile a gran parte dei fedeli – per non parlare di quei preti i quali avevano così scarsa dimestichezza con la lingua sacra da pronunziare formule del tipo in nomine patria et filia et sanctus spiritus. Ma i teologi risolsero la questione appunto da teologi, ossia con una meravigliosa sottigliezza. Dichiararono infatti che la messa non è solo insegnamento, come volevano i protestanti, ma contiene un grande insegnamento: la messa è da considerarsi prima di tutto vero sacrificio.
Stando così le cose, il Concilio non giudicò opportuno alterare la tradizione, permettendo la celebrazione in lingua volgare. “Perché le pecorelle di Cristo non muoiano di fame e i piccoli non chiedano pane e non ci sia nessuno a spezzarglielo”, ossia per evitare che il popolo indotto restasse escluso dal tesoro di dottrina “contenuto” nella messa, era sufficiente che “i pastori” fornissero, in volgare, le opportune spiegazioni sulla liturgia della messa. Il vero sacrificio poteva e doveva essere consumato nella lingua della chiesa di Roma, madre e maestra di tutte le chiese.
Come c’era da attendersi, la decisione del Concilio Tridentino provocò nel tempo una messe di apologie del latino, volte a giustificare – in base ad argomenti estetici, filosofici, psicologici o storici -l’intrinseca superiorità di questa lingua. “Pare che le preghiere in lingua latina” scriveva Chateaubriand “rafforzino il sentimento religioso del popolo. Non sarebbe questo un effetto naturale della nostra inclinazione verso il segreto? Nel tumulto dei pensieri e delle miserie che affliggono la sua vita, l’uomo, pronunciando parole poco familiari o anche ignote, crede di chiedere le cose che gli mancano e che ignora”. E quando il Concilio Vaticano II, per impulso soprattutto dell’allora cardinale Montini, nel 1963 decretò la fine del latino come lingua ufficiale della liturgia, le lamentele furono infinite. Fra tutte, ne spicca una (almeno in apparenza) sorprendente. Quella di George Brassens, il quale cantò questo ritornello: “Sans le latin, sans le latin, la messe nous emmerde…”.
Il libro di Françoise Waquet è un’opera ammirevole per la ricchezza della documentazione e per l’ampiezza dell’indagine storica. Un lavoro del genere mancava, in Europa e in Italia, gliene siamo grati. Naturalmente il “latino” che emerge da queste pagine è tutt’altra cosa da quello familiare a latinisti e filologi classici, i quali cercano di tenerlo vivo come testimonianza storica della cultura romana. Il latino a cui ci mette di fronte questo libro è una lingua radicalmente “altra”, parlata o borbottata da “altri”, meravigliosamente scritta, o malamente storpiata, da altri ancora. Da questo punto di vista, Chateaubriand aveva probabilmente ragione. Attraverso le fatiche di questa lingua grammaticalizzata, didattica, istituzionale, per secoli l’Europa ha dato forma “alle cose che le mancavano e che ignorava”. Oggi quel tempo si è definitivamente concluso. Ecco perché anche quest’altro latino può diventare oggetto di studio per gli storici.