La #peste non muore, si rivede

TELMO PIEVANI, (La Lettura, Corriere, 26/2/17)

Flagello di Dio, punizione per i peccati, morbo silente portato dai miasmi o da improbabili untori. La biografia della peste corre come una filigrana di paura dentro la storia delle civiltà. Di pestilenze sono pieni i testi sacri e le cronache dell’ #antichità, ma non sappiamo se fosse proprio la peste o una qualche altra epidemia. La prima comparsa scientificamente accertata di un ceppo di peste bubbonica risale al 541, nella Costantinopoli dell’imperatore bizantino #Giustiniano I. Fu portata probabilmente dai ratti che viaggiavano al seguito del grano proveniente dal Nord Africa. Propagandosi di porto in porto, uccise al ritmo di migliaia di persone al giorno e, ripresentandosi ciclicamente, finì per sterminare almeno un quarto della popolazione del Mediterraneo orientale.

Evolvendosi di focolaio in focolaio nel corso del Medioevo, l’epidemia tornò a travolgere un’Europa già indebolita dalle carestie alla metà del Trecento. Le difese immunitarie non fecero argine: la variante asiatica nota come «morte nera» (per via delle macchie scure che produceva sulla pelle) era la più veloce e letale, colpiva subito ai polmoni e passava da uomo a uomo con un sol respiro. Dal 1347 un’onda di morte sommerse il continente, mietendo milioni di vittime, incurante di latitudini, climi e confini imperiali. Firenze venne flagellata nel 1348.

Il tanto demonizzato ratto nero era un untore per procura, giacché il batterio colpevole è in realtà contenuto nella saliva delle sue pulci, voraci di sangue. Quindi la peste è una matrioska ecologica: un microrganismo patogeno vive dentro un insetto, che colonizza i roditori e altri ospiti con pelliccia, i quali per secoli sono entrati in contatto con mercanti, marinai, soldati, mendicanti e girovaghi. Dopo il passaggio della morte nera (e non è la sceneggiatura di Guerre Stellari ), restavano solo orrore, desolazione e discrete ricchezze da distribuire tra i sopravvissuti, che in più sviluppavano l’immunità al morbo, permanente o temporanea. La vita sociale ne usciva comunque stravolta: proibiti viaggi e assembramenti; navi in quarantena; cordoni sanitari, lazzaretti, roghi purificatori, monatti per le strade, dottori della peste con le lugubri maschere a forma di becco.

La peste decise le sorti di guerre, assedi, città e commerci, scompaginando l’ordine politico ed economico. Forse esagerando, si ipotizza che abbia contribuito alla caduta dell’Impero romano d’Occidente. Era così tremenda da gettare le comunità umane nel vizio e nella disperazione, come nota Boccaccio nel Decameron. Arrivava come un vento incostante, spesso sulle navi dall’Oriente insieme alle migliori mercanzie. La sua virulenza livellava le gerarchie sociali, soprattutto nel caso della peste del 1630 descritta dal Manzoni, anche se di norma prediligeva chi stava più vicino a scoli fognari e animali.

Dato che la causa reale era un mistero, per secoli l’ignoranza sulla peste alimentò paure, superstizioni e cure inefficaci. Poi venne il tempo della medicina infettiva moderna di Louis Pasteur. Un suo allievo franco-svizzero in missione nelle colonie d’Indocina, Alexandre Yersin, durante un’epidemia a Hong Kong nel 1894 isolò finalmente il batterio killer, battezzato in suo onore Yersinia pestis. La tecnica letale del bacillo pestifero è attaccare i tessuti linfatici e distruggere le difese immunitarie. Nella variante bubbonica, i linfonodi si infiammano e gonfiano. Dopo qualche giorno, i malcapitati vanno incontro a febbre alta, dolori, nausea, vomito, delirio, necrosi alle estremità. La variante peggiore colpisce direttamente i polmoni e si trasmette per via aerea. L’aggressività è massima: bastano pochi batteri inoculati e la malattia invade il corpo, trasformandolo a sua volta in un veicolo di contagio. I biologi molecolari negli ultimi anni hanno ricostruito l’albero genealogico dei ceppi di peste, scoprendone l’origine negli altipiani dell’Asia centrale. Poi il batterio è diventato rapidamente un flagello planetario e non smette di riemergere, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui, secondo le organizzazioni internazionali accreditate, il numero di nuove malattie identificate si è quadruplicato, un po’ perché siamo più bravi a scovarle e un po’ perché sono davvero in aumento. Così tornano gli incubi pandemici che hanno turbato l’età moderna, ma in varianti ogni volta geneticamente modificate.

Dalla metà dell’Ottocento le epidemie di peste in Europa sono diventate meno letali grazie alle migliori condizioni sanitarie, ma in altre parti del mondo hanno continuato a seminare distruzione per tutto il secolo successivo, soprattutto in India e in Cina nei primi anni del Novecento, e poi in Indocina, Africa e Madagascar. La peste è difficile da eradicare, perché la pulce portatrice trova continuamente nuovi animali in cui nascondersi e il batterio resiste a lungo nel terreno, anche al freddo. A partire dai serbatoi silenti sparsi nel mondo, piccoli focolai scoppiano di tanto in tanto nelle campagne o in città affollate, coinvolgendo alcune centinaia o migliaia di persone ogni volta. Nelle aree rurali degli Stati Uniti occidentali – soprattutto in New Mexico, Arizona, California e Colorado – è endemica dall’inizio del Novecento, dopo essere stata portata dall’Asia. Da quelle parti l’insetto infetta una quindicina di persone all’anno anche nel XXI secolo e non sorprende la recente notizia della sua ricomparsa tramite nuovi vettori, in particolare roditori come il cane della prateria.

La biografia della peste è piena di corsi e ricorsi. Nelle Americhe infatti era già arrivata cinque secoli fa, sulle navi dei conquistadores. I colonizzatori europei portarono oltreoceano la peste bubbonica, insieme ad altre decine di agenti patogeni devastanti come vaiolo, tifo e morbillo, nei confronti dei quali i nativi americani non avevano alcun tipo di immunità. In cambio, gli amerindi passarono agli europei soltanto la sifilide e poco altro. Le ragioni di questo scambio immunitario asimmetrico, a tutto favore degli euroasiatici invasori, affondano sorprendentemente nel lontano passato evolutivo delle migrazioni umane.

Le popolazioni amerinde derivano infatti da piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori siberiani entrati in Nord America forse già prima di 20 mila anni fa. A causa di questo collo di bottiglia, la loro variabilità genetica era più bassa, il che rende i discendenti più vulnerabili. Inoltre, quegli abili cacciatori paleolitici portarono all’estinzione molti mammiferi di grossa taglia che abitavano le Americhe, facendo sì che il sistema immunitario dei loro discendenti fosse meno abituato del nostro ad affrontare agenti patogeni provenienti da grandi animali. Il risultato finale di questa concatenazione di eventi, all’arrivo di Colombo, fu catastrofico.

Spesso le epidemie dipendono da «salti di specie» dei patogeni tra animali ed esseri umani, il che ci ricorda che il successo di batteri e virus è in gran parte causato da noi. Viaggi, trasporti, urbanizzazione selvaggia, aerei, intrusione in nuovi ambienti ci rendono un vettore ideale per loro. Le pulci pestifere, sempre in cerca di un pasto di sangue, ci sfruttano come nicchia ecologica e lo stesso fa il bacillo, usando la pulce come mezzo di dispersione.

Alcune cronache medioevali parlano di lanci di cadaveri di appestati contro i nemici e si teme che la peste possa essere utilizzata anche in futuro come arma batteriologica, non essendoci peraltro un vaccino disponibile. Oggi però la peste deve fare i conti con validi avversari: l’igiene, diagnosi rapide e soprattutto terapie con antibiotici, ai quali i ceppi del genere Yersinia per fortuna sono sensibili. Ma è bene non abbassare mai la guardia, poiché i batteri come i virus hanno una strategia insidiosa: l’altissima mutabilità. Sono campioni di evoluzione darwiniana: ecco perché ritornano ciclicamente come la peste, ogni volta un po’ diversi, ingannando la memoria immunitaria delle loro vittime. Si scambiano materiale genetico, variano rapidamente e sviluppano la resistenza persino a cocktail di antibiotici. Organismi così semplici ci tengono in scacco e ci obbligano a continue ricerche su nuovi farmaci. Con metafora bellica, gli evoluzionisti chiamano questo processo «corsa agli armamenti»: un’ escalation di mosse e contromosse. La peste, quindi, non è ritornata. Semplicemente, non se n’era mai andata.

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