La #guerra innovatrice di #Odisseo e #Diomede
La #cultura #classica vedeva nell’attività bellica un fenomeno dinamico dai due volti: l’ #eroismo e la #razionalità
di Giovanni Brizzi (Corriere La Lettura 11/2/18)
A cinquant’anni esatti dalla prima edizione (e a ben 54 dal convegno in Sorbona che ne aveva anticipato i temi…) esce in italiano la raccolta di saggi a cura di Jean-Pierre #Vernant La guerra nella Grecia antica (Raffaello Cortina). Riparazione dovuta, se pur tardiva, verso un curatore e una raccolta che hanno coperto ogni fase cronologica (micenea ed omerica, arcaica, classica, ellenistica) e ogni aspetto (mitologia e politica, società, tecnica, diritto) del campo d’indagine prescelto; e che ne hanno affidato la trattazione ad alcuni tra i migliori studiosi, non solo francesi, di quell’epoca.
Tutto invecchia; ma gran parte dell’opera possiede ancora una straordinaria forza di pensiero, come sottolinea nella sua mirabile introduzione Umberto Curi, che arriva infine a rimpiangere funzioni e sostanziale innocenza della guerra antica. Già, perché Vernant — giovane e brillantissimo agrégé del 1937 divenuto poi il leggendario «colonel Berthier» a capo delle Ffi (Forze francesi dell’interno), la resistenza interna ai nazisti nel Sud Ovest della Francia, lo studioso sollecitato da Georges Dumézil a entrare nell’ École pratique des hautes études e qui salito alla testa di una sezione dedicata alle scienze religiose, il leader carismatico di una «scuola» che annoverava figure come Marcel Detienne e Pierre Vidal- Naquet — era altresì l’«eretico» irriducibile a ogni schema, il marxista capace, prima ancora di uscire dal Partito comunista francese, di criticare un’ideologia per lui «senza più alcuna relazione con l’economia e la politica odierne» e di liberarsi di qualunque assunto preconcetto, a cominciare da quel pacifismo di maniera che, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tanto aveva nuociuto alla corretta interpretazione della storia.
Della storia antica, in particolare: «La guerra era al centro della cultura classica… Nei mondi greco e romano — ha scritto lo storico Harry Sidebottom — quasi ogni cosa si possa leggere, ascoltare o guardare potrebbe evocare la guerra». E Vernant lo sapeva. « Pólemos è padre e re di tutte le cose», disse Eraclito; e il nostro autore ritiene che in Grecia sia la guerra la matrice di ogni mutamento; sicché, con siffatte premesse, «rovescia di fatto le modalità con le quali… è concepito il rapporto guerra-pace. È il primo termine del binomio, e non il secondo, a introdurci alla comprensione delle forme di organizzazione e funzionamento delle società antiche», osserva Curi.
La storia militare diviene così, per lui, ciò che dovrebbe essere sempre: un’insostituibile chiave di lettura. Governato da questa concezione, il volume offre una ricca serie di spunti, vitali ancor oggi, dei quali chi scrive è debitore di persona. Due temi, fra tanti.
Aprendo il fondamentale lavoro di quattro anni prima ( La fonction guerrière dans la Grèce ancienne ) che prelude al volume collettivo di cui stiamo parlando, Vernant non si limita a sottolineare come la forza della falange oplitica risieda nella coesione dei ranghi serrati; ricorda che «la città rimodella i valori antichi. Ciò che conta nella guerra è la padronanza di sé, il senso dell’azione collettiva». Tra l’eroismo individuale di Aristodemo, che a Platea contro i Persiani si slancia «come un forsennato fuori dallo schieramento», e il valore cosciente di Posidonio, il quale rimane al suo posto in nome dell’ eutaxía , della disciplina che fa degli opliti un mondo di uguali, gli Spartani scelgono senza esitare il secondo. Checché si voglia pensare del formalismo oplitico e del reale funzionamento della falange sul campo, l’idea di base è comunque feconda.
Recensendo mesi fa proprio su queste pagine il bel volume di Paola Angeli Bernardini Il soldato e l’atleta (il Mulino, 2016), mi sono chiesto per esempio se la fortuna degli agoni sportivi, che comincia a imporsi appieno nel momento in cui la guerra piega verso l’oplitismo, non sia una forma surrogata, da collegarsi alla svolta, sociale più ancora che tattica, e all’istituzione della pólis ; e se non sia per questo che il mondo greco finisce coll’ignorare nello sport ogni «gioco» di squadra, riservandone la pratica alla guerra e riconoscendo al gesto del singolo la gloria, certo prestigiosa in tutta l’Ellade, dei trionfi panellenici, ma limitandola di norma a quei Giochi che, durante il loro svolgersi, sospendono ogni conflitto.
Ricorda infine Vian, nel ricchissimo saggio su La funzione guerriera nella mitologia greca incluso in questo volume, come Esiodo ( Le opere e i giorni, 143-173) distingua due stirpi di combattenti — la Stirpe del Bronzo, cui «le gesta di Ares stavano a cuore, piene di pianto, e le opere della tracotanza»; e i «più giusti e migliori» — e due concezioni diverse della guerra, che si richiamano all’opposizione tra Ares e Atena. Atena, già Vian lo ricorda, prevale in Omero su Ares di cui pure ha amato uno dei discepoli: quel Tideo al quale, sotto le mura di Tebe, ha rinunciato a dare l’immortalità solo perché l’ha visto, ferito, divorare il cervello del nemico. Dopo di lui ne amerà il figlio, Diomede, da lei prediletto, suo assistente ad Argo e a Salamina Cipria. Ma c’è di più: ciò che Vian sembra non aver colto è il fatto che Diomede non è solo il beniamino della dea, ne diviene figura in certo qual modo complementare, sancendo una ricomposizione tra due opposte forme di guerra che è evidentemente affermata già in Omero. Non è Afrodite soltanto a esser ferita da Diomede, ma lo stesso Ares; sicché, accettando Vian, si potrebbe dire che il Tidìde ripudia così la sua stessa figura di riferimento. Il dio del ménos , della furia cieca, soccombe sul campo di fronte a un mortale che, in condizioni normali, avrebbe ben poco da opporgli; ma a guidarlo è Atena, che — come ha detto altrove proprio Vernant — «nell’Olimpo divino è l’intelligenza incarnata», figlia e simbolo di quella mêtis alla quale già nei poemi omerici viene assegnata una preminenza assoluta.
Altro mi pare dunque il modello: è la guerra razionale che modera quella istintiva. Un’ulteriore figura vi è infatti che, vicaria rispetto alla dea, in assenza di questa accompagna Diomede in tutte le sue gesta più brillanti, il polytropon (versatile), il polymêtis (ingegnoso) per eccellenza, che di Atena è la proiezione terrena, davvero «maggior corno», come ha intuito Dante (Inferno XXVI, v. 85), rispetto al compagno che protegge e guida: Odisseo.
Già nell’età di Omero, dunque, le due anime, di Ares e di Atena, sono riconciliate; e il combattente greco esibisce una natura duplice, vorrei dire «duale». Il riferimento non è Achille, il quale — è ancora Vernant che parla — riassume «tutte le contraddizioni dell’ideale eroico…», ma resta un «essere marginale» colpevole di hybris (superbia) perché chiuso «nell’altera solitudine del suo sdegno»; sono Odisseo e Diomede, doppia, indissolubile figura sinergica che incarna in archetipi eterni le due anime della guerra, eroismo e razionalità.