La culla #babilonese, troppo stretta per tutte le #civiltà

#Storia #antica. Nel suo “Il retaggio della #Mesopotamia” Stephanie #Dalley ricostruisce alcune tesi correnti ma datate, a cominciare da quella che fa derivare la #scrittura #egiziana e la #micenea dalla cuneiforme

di Lorenzo Verderame (il manifesto Alias 26/6/16)

Cosa è rimasto delle culture che per tre millenni si sono succedute nella regione attraversata dai fiumi Tigri e Eufrate e che sono generalmente riunite sotto l’etichetta di «civiltà mesopotamica»? È questo l’interrogativo cui cerca di offrire una risposta l’ampio saggio titolato Il retaggio della Mesopotamia della studiosa britannica Stephanie Dalley (Adelphi, con un saggio di David Pingree, traduzione di Adriana Bottini, pp. 345, euro  32.00) apparso per la prima volta nel 1998 per la Oxford University Press, che mostra fin dal titolo quale sia il suo scopo: tracciare gli elementi della «eredità» mesopotamica nelle culture coeve e, soprattutto, in quelle posteriori. È infatti all’influenza della tradizione mesopotamica sulla tradizione biblica, classica e islamica che Stephany Dalley dedica la maggior parte del volume.

Fin dai periodi preistorici il Vicino Oriente è stato lo scenario di importanti cambiamenti e avanzamenti tecnologici, ma è nella Mesopotamia meridionale del III millennio che si concentrano quei mutamenti di fondamentale importanza che l’hanno fatta individuare come «culla della civiltà». Secondo le fonti a disposizione, è infatti in quest’area che si sarebbero verificati per la prima volta quella serie di processi e innovazioni strettamente interconnessi, come l’origine della città e dello stato o l’invenzione della scrittura, che marcano l’inizio della storia. Nell’arco di tre millenni, le culture che si sono avvicendate nella regione tra il Tigri e l’Eufrate hanno dato vita a una civiltà dai caratteri unitari, con una coscienza di identità regionale, un pantheon unico, un sistema di governo simile. Tuttavia, il principale elemento identitario sta nell’elemento linguistico, il sumerico prima e l’accadico con le sue varianti (assiro e babilonese) dopo, e, soprattutto, nella scrittura cuneiforme, che avrebbe accompagnato per tre millenni lo sviluppo della civiltà mesopotamica e ne avrebbe seguito e determinato le sorti.

La scrittura cuneiforme ebbe origine nella bassa Mesopotamia (Uruk) alla fine del IV millennio a.C. e fu utilizzata in prima istanza per esprimere la lingua sumerica. Si diffuse presto in tutto il Vicino Oriente e fu adattata per esprimere lingue differenti. Nella seconda metà del II millennio a.C. non solo il cuneiforme, ma la stessa lingua babilonese divenne il mezzo utilizzato da tutte le cancellerie, compresa quella egiziana e ittita, per lo scambio della corrispondenza diplomatica. L’adozione degli strumenti per apprendere il cuneiforme portarono alla diffusione della cultura e della letteratura mesopotamica. Altri elementi di questa civiltà si diffusero con gli scambi commerciali o tramite le relazioni politiche, e le tracce di questa disseminazione nel Vicino Oriente e oltre sono documentate fin dalle fasi più arcaiche.

Alle soglie del I millennio a.C., ormai in posizione periferica rispetto alle nuove rotte commerciali e alle aree strategiche, prima fra tutte il Mediterraneo, la Mesopotamia si avvia verso una lenta decadenza. Alla perdita di indipendenza politica con la conquista persiana, seguono parallelamente altri fenomeni, in particolare la diffusione delle scritture alfabetiche e dell’aramaico che si affiancano e poi soppiantano nell’uso quotidiano e ufficiale la lingua assiro-babilonese e la scrittura cuneiforme. Gli scribi continueranno a trasmettere e comporre opere scritte in cuneiforme e in lingua babilonese, se non addirittura in sumerico, divenuta nel frattempo lingua liturgica, ma si tratta di opere destinate a una circolazione limitata.

L’influenza della Mesopotamia sulle fonti bibliche è un fenomeno molto complesso per il quale si deve tener conto del comune elemento linguistico, socio-culturale, geografico e, non da ultimo, i contatti costanti e prolungati. All’esilio babilonese si attribuisce la penetrazione di numerosi elementi mesopotamici nell’antico Testamento. La storia del diluvio mostra parallelismi con quella babilonese narrata nel Poema di Atra-hasis e ripresa nell’epopea di Gilgameš, per non parlare della torre di Babele che richiama direttamente l’edificio emblematico della cultura mesopotamica, la ziqqurat, e che per secoli ha ispirato la fantasia degli artisti occidentali.

Rispetto all’Egitto, affacciato e ancora protagonista nel nuovo scenario mediterraneo, le cui vestigia di pietra continuano a riecheggiare l’antico passato, l’immagine della Mesopotamia nelle fonti classiche appare sbiadita se non addirittura assente quando la si compari con la lunga e gloriosa tradizione delle epoche precedenti. Le ragioni di un simile destino sono diverse: di sicuro, intanto, la lontananza e l’assoggettamento al dominio persiano e partico ne hanno fatto un’area remota e esotica agli occhi dei greci e dei romani. La natura delle sue antiche vestigia fatte di mattoni cotti e crudi facili all’erosione degli agenti atmosferici ha anche favorito un rapido oblio e ne ha fatto un’area ignorata e considerata spoglia sino al XIX secolo, quando cominciò l’esplorazione sistematica della regione. Ma a queste ragioni va aggiunta la natura della documentazione mesopotamica: cosa sapevano i greci, per non dire i romani, di questa civiltà e quali erano le loro fonti?

Sopravviveva il ricordo degli ultimi imperi assiro e babilonese, delle loro capitali Ninive e Babilonia, e dei loro re divenuti personaggi mitici, di cui si ha traccia nei racconti biblici e in alcuni autori classici, ma della storia dei millenni precedenti, della letteratura e dei traguardi raggiunti rimaneva solo una pallida eco. È stato Erodoto a offrirci la descrizione più ampia dedicata all’antica Mesopotamia, ricca, tuttavia, di elementi favolistici e fonti di seconda mano mal comprese; il che lascia intendere quanto poco conobbero e compresero i greci della tradizione mesopotamica. Per colmare questa lacuna tra il IV e III secolo a.C. un sacerdote babilonese, Berosso, si preoccupò di redigere in greco una Storia di Babilonia (Babyloniaka): nell’opera, giuntaci purtroppo frammentaria e per fonti indirette, si raccontava la storia dell’antica Mesopotamia, dalla creazione del mondo a opera del dio Marduk fino agli ultimi re babilonesi.

Sebbene il culto di alcune divinità mesopotamiche si diffuse ed ebbe grande fama anche nei periodi tardi, fin dall’antichità, tuttavia, la Mesopotamia fu associata principalmente agli aspetti astrali della religione babilonese e alle eccezionali conoscenze astronomiche e astrologiche acquisite. Nella tradizione classica i sacerdoti caldei sono associati al culto astrale celebrato sulla sommità delle ziqqurat e i «caldei» si diffusero in tutto il mondo ellenizzato portando con loro conoscenze esoteriche e divinatorie, in particolare la conoscenza del moto degli astri. «Caldei» è il nome degli astrologi derisi da Cicerone nel De divinatione e da Plinio nella sua Historia naturalis.

Ma a parte gli elementi direttamente connessi con la tradizione mesopotamica cos’altro può essere considerato come sua «eredità» passata in altre tradizioni? L’anteriorità del dato scritto mesopotamico rispetto a quello di altre culture vicine o addirittura rispetto a culture prive di scrittura porta necessariamente ad attribuire tutta una serie di progressi e innovazioni alla Mesopotamia, che diviene di fatto la civiltà dei primati.

Inoltre, incombono sulla possibilità di una analisi corretta il dato della monogenesi, che fa corrispondere l’anteriorità del dato scritto all’origine di uno specifico elemento e quello del diffusionismo, che presuppone diramazioni di una civiltà per trasmissione o per contatto. Sono queste le prospettive che diedero vita, all’inizio del secolo scorso, alla corrente nota come panbabilonismo, che riportava l’origine di ogni religione e civiltà a quella Babilonese. Eppure il fenomeno della trasmissione e ricezione di elementi culturali è particolarmente complesso e deve tener conto non solo dell’elemento in sé, ma del momento e della ragione della trasmissione, della forma in cui l’elemento è stato recepito e come è stato rielaborato.

Nonostante Stephanie Dalley metta in guardia da questi modelli interpretativi, poi li adotta nel suo saggio: prendiamo, per esempio, il caso della scrittura cuneiforme, perché è un buon esempio dei rischi interni a possibili semplificazioni. Secondo Dalley la scrittura egiziana e quella micenea sarebbero derivate – la prima direttamente, la seconda per contatto – da quella cuneiforme; tuttavia nessuna evidenza parla in questo senso né l’ipotesi è confortata da qualche studio. Al contrario, sembra evidente che diversi sistemi di scrittura furono elaborati contemporaneamente o successivamente in aree contigue (Egitto, Mesopotamia, Cina) o molto lontane (Mesoamerica), dimostrando come si tratti di fenomeni paralleli e indipendenti.

Inoltre la diffusione della scrittura cuneiforme nelle aree vicine non fu un fenomeno uniforme né immediato. Nel III millennio l’Anatolia mantenne strette relazioni con la Mesopotamia, adottandone alcune innovazioni (per esempio il sigillo), ma non la scrittura.

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