La #comunità impossibile di #Facebook
di Yuval Noah Harari (Internazionale 6/5/2017 )
A febbraio Mark #Zuckerberg ha pubblicato un manifesto che parla della necessità di costruire una comunità globale e del ruolo di Facebook in questo progetto. Lo scopo della lunga lettera, diffusa attraverso la sua pagina Facebook, non era solo quello di placare le preoccupazioni sul ruolo di Facebook nella diffusione delle notizie false. Era soprattutto un’indicazione del fatto che il social network più grande del mondo non è più semplicemente un’azienda, ma sta per diventare un movimento ideologico mondiale. Ovviamente le parole costano meno dei fatti. Per mettere in pratica il suo manifesto, Zuckerberg dovrà farsi strada nel campo minato della politica e probabilmente cambiare il modello di business della sua azienda. È difficile guidare una comunità globale quando si fanno soldi catturando l’attenzione della gente e rivendendola agli inserzionisti pubblicitari. La maggior parte delle multinazionali segue il dogma neoliberista per il quale le imprese devono occuparsi solo di fare profitti, i governi devono fare il meno possibile e l’umanità deve fidarsi della capacità del mercato di prendere le decisioni più importanti. Un colosso della tecnologia come Facebook ha un motivo in più per presentarsi come un mezzo trasparente: dato il suo immenso potere e l’enorme quantità di dati personali a sua disposizione, sta molto attento a non dire nulla che possa farlo apparire come il Grande fratello. Ci sono sicuramente dei buoni motivi per temere che lo sia. Nel ventunesimo secolo gli algoritmi che gestiscono la raccolta di dati possono essere usati per manipolare le persone in modi che in passato erano inimmaginabili. Prendiamo per esempio le competizioni elettorali: alle elezioni presidenziali statunitensi del 2020 Facebook potrebbe teoricamente sapere non solo chi sono gli indecisi, ma anche cosa bisogna dire a ciascuno di loro per assicurarsene il voto. Delegare tutte le responsabilità al mercato, però, ha i suoi rischi. Il mercato si è dimostrato tremendamente inadeguato ad affrontare i cambiamenti climatici e la disuguaglianza globale, ed è ancor meno probabile che sarà in grado di regolare il potere esplosivo della bioingegneria e dell’intelligenza artificiale. Se Facebook vuole davvero prendere una posizione ideologica, chi teme il suo potere non dovrebbe limitarsi a ricacciarlo nel suo bozzolo neoliberista. Bisognerebbe invece spingere tutte le altre aziende, le istituzioni e i governi a contestarne la visione. La scommessa ideologica di Zuckerberg comincia con una serie di argomentazioni molto convincenti su perché, per usare le sue parole, “oggi il progresso chiede all’umanità di aggregarsi non solo in città e nazioni, ma in una comunità globale”. In passato, le tribù urbane si coalizzavano in nazioni perché nessuna comunità era in grado di gestire in modo efficace reti commerciali e strutture amministrative di grandi dimensioni. Prendiamo per esempio le antiche tribù che vivevano lungo il Fiume giallo. Il fiume era la loro linfa vitale, ma periodicamente c’erano inondazioni o secche disastrose. Nessuna tribù poteva risolvere questo problema da sola. Ci si poteva riuscire solo attraverso uno sforzo comune, costruendo grandi dighe e scavando centinaia di chilometri di canali. Di conseguenza, le tribù si fusero a poco a poco in un’unica nazione cinese con il potere di regolamentare la distribuzione dell’acqua e creare una prosperità senza precedenti. Nel nostro secolo le nazioni si trovano nella stessa condizione delle antiche tribù del Fiume giallo: non sono più strutturalmente adatte per affrontare le sfde fondamentali della loro epoca. Tutti i paesi vivono lungo lo stesso fiume digitale, che è fonte di prosperità ma anche di pericoli. Nessuno può controllare e governare lo spazio digitale da solo. Per motivi simili, nessuno può regolare da solo tecnologie dirompenti come l’intelligenza artificiale. Se il governo degli Stati Uniti vieta all’intelligenza artificiale il controllo autonomo delle armi, questo non impedisce agli scienziati nordcoreani di farlo. E se questo darà alla Corea del Nord dei vantaggi strategici, gli Stati Uniti saranno tentati d’infrangere il loro stesso divieto. In un mondo xenofobo dove ognuno pensa per sé, se un paese decide di seguire una strada rischiosa ma potenzialmente vantaggiosa, spingerà gli altri a fare lo stesso, perché nessuno potrà permettersi di restare indietro. Per evitare questa sorta di corsa al ribasso probabilmente l’umanità avrà bisogno di trovare un’identità e un senso di appartenenza globale. Zuckerberg osserva giustamente che qualsiasi tentativo di costruire una comunità globale deve andare di pari passo con la tutela e il rafforzamento delle comunità locali. Per milioni di anni l’uomo si è adattato a vivere in comunità di poche decine di persone. Ancora oggi, per la maggior parte degli uomini è impossibile conoscere davvero più di 150 persone, non importa quanti “amici” abbiamo su Facebook. Nessuna nazione, azienda o rete globale può sostituire le comunità di persone che si conoscono nell’intimo. Senza questi gruppi l’uomo si sente solo e alienato. Ecco perché una comunità globale può riuscire solo se sostiene le comunità locali. Non è un obiettivo impossibile. Se ci si sente parte della propria famiglia e della propria nazione, nulla vieta di sentirsi parte del genere umano. Sentirsi parte di più gruppi contemporaneamente non è facile, perché a volte le esigenze dei gruppi sono contraddittorie. Ma la vita non è facile. Bisogna accettarlo. Il manifesto di Facebook ha diversi punti deboli. Fa più volte riferimento ai “valori collettivi” che dovrebbero essere il fondamento della comunità globale, senza specificare però quali siano. Purtroppo, nel 2017 l’umanità non ha ancora un corpo di valori collettivi. Ecco perché è così difficile costruire una comunità globale. Le elezioni democratiche globali non sono la risposta. Le persone si sentono accomunate dalle elezioni solo quando c’è un legame di fondo tra la maggior parte degli elettori. Le antiche tribù del Fiume giallo non avevano un sistema di valori condivisi, e per questo non furono capaci di raggiungere l’unità attraverso un processo democratico pacifico. Si dovette ricorrere alla violenza per costringerle a unificarsi sotto un solo impero. Questo non vuol dire che Facebook dovrà arruolare un esercito. Significa però che non basta condividere i video dei nostri gatti per creare una vera comunità globale. Parlare di valori collettivi è troppo facile. Facebook è disposto a dire quali sono questi valori, rischiando di alienarsi le simpatie di molti dei suoi utenti e di affrontare la censura dei governi ostili? Se Facebook vorrà davvero formulare un sistema di valori universali, avrà un grande vantaggio rispetto a tante istituzioni che ci hanno provato in passato. A differenza della prima chiesa cristiana, o del Partito comunista di Lenin, Facebook è una rete veramente globale, con quasi due miliardi di utenti. Però ha anche un grande svantaggio. A differenza della chiesa cristiana e del Partito comunista, è una rete online. Zuckerberg spiega nel suo manifesto che le comunità online aiutano a costruire quelle offline. Spesso è vero. Zuckerberg, però, evita di dire che in alcuni casi l’online va a scapito dell’offline, e che tra l’uno e l’altro c’è una differenza fondamentale. Le comunità reali hanno una profondità che le comunità virtuali non potranno mai avere, almeno non nel prossimo futuro. Se sono a letto malato a casa mia in Israele, i miei amici online in California possono parlare con me, ma non possono portarmi una minestra o una bella tazza di tè. L’uomo ha un corpo. Nell’ultimo secolo la tecnologia ci ha allontanato dal nostro corpo. Abbiamo perso la capacità di prestare attenzione a ciò che annusiamo e assaggiamo. Siamo rapiti dagli smartphone e dai computer. Ci interessa più quello che succede nel ciber spazio che quello che succede davanti a noi. È molto più facile parlare con mia cugina che vive in Svizzera, ma è diventato più difficile parlare con mio marito a colazione perché ha gli occhi fissi sullo smartphone e non mi guarda. In passato questa disattenzione non ci era concessa. Nell’antichità, quando dovevamo procacciarci il cibo, eravamo sempre all’erta e vigili. Camminando nella foresta per trovare i funghi, gli esseri umani scrutavano il terreno in cerca di protuberanze rivelatrici e ascoltavano ogni minimo movimento nell’erba per capire se c’era un serpente in agguato. Quando trovavano un fungo lo assaggiavano con la massima cautela per verificare che non fosse velenoso. Oggi, nella società del benessere, questa consapevolezza non è più necessaria. Facciamo avanti e indietro tra le corsie del supermercato scrivendo messaggi al cellulare e possiamo scegliere tra migliaia di prodotti alimentari, ognuno dei quali è stato controllato dalle autorità sanitarie. Ma qualsiasi cosa scegliamo – pizza italiana o noodle tailandesi – il più delle volte la consumiamo in fretta davanti allo schermo, controllando la posta elettronica o guardando la tv, senza neanche fare caso al sapore di quello che stiamo mangiando. Zuckerberg dice che Facebook è impegnato a “migliorare i suoi strumenti per darvi il potere di condividere la vostra esperienza”. Forse, però, la gente avrebbe bisogno soprattutto di strumenti per entrare in contatto con la propria esperienza. In nome della condivisione delle esperienze, siamo portati a interpretare ciò che ci succede in base a come lo vedono gli altri. Se succede qualcosa di emozionante, il primo istinto dei fedelissimi di Facebook è tirare fuori lo smartphone, fare una foto, pubblicarla e aspettare i like, senza fare caso a come si sentono in realtà. Ormai le loro sensazioni dipendono più dalle reazioni online che dalla loro esperienza concreta. Distaccati dal corpo, dai sensi e dall’ambiente fisico, gli esseri umani si sentono sempre più alienati e disorientati. Secondo gli esperti questo senso di alienazione è legato al declino della religione e del nazionalismo, ma probabilmente la perdita del contatto con il proprio corpo è ancora più importante. L’umanità è vissuta per milioni di anni senza religioni e senza nazioni, e probabilmente potrebbe farne felicemente a meno anche oggi. È impossibile, però, essere felici se si è scollegati dal proprio corpo. Se non ci sentiamo a casa nel nostro corpo, non ci sentiremo mai a casa nel mondo. È stato proprio il modello di business di Facebook a spingere le persone a passare sempre più tempo online, anche se questo significa avere meno tempo ed energie da dedicare alle attività offline. Zuckerberg dice: “Molte attività possono essere lette attraverso la lente della costruzione di una comunità. Guardare un
video della squadra per cui facciamo il tifo o il nostro programma preferito, leggere il nostro giornale preferito o giocare al nostro gioco preferito non è solo intrattenimento o informazione, ma un’esperienza condivisa e un’opportunità di unire persone che hanno a cuore le stesse cose. Possiamo vedere queste esperienze non come una forma di consumo passivo, ma come un modo per rafforzare le relazioni sociali”. Sono parole confortanti, ma è inquietante (dando per scontato che quando si parla di gioco preferito ci si riferisca ai videogiochi) che gli unici esempi concreti siano quelli di attività online incorporee. Perché non incoraggiare le persone a giocare fisicamente a calcio o a organizzare uno spettacolo teatrale, anche se significa scollegarsi da internet per qualche ora? Il modello di business di Facebook dà più valore al tempo trascorso online che a quello trascorso offline. Facebook dovrebbe adottare un nuovo modello che spinga le persone a collegarsi solo quando è davvero necessario e a dedicare più attenzione alle loro comunità reali, ai loro corpi e ai loro sensi. Ma è disposto a farlo? Cosa ne penserebbero gli azionisti? Un modello alternativo di questo genere è stato abbozzato recentemente da Tristan Harris, ex dipendente di Google e filosofo della tecnologia che ha inventato una nuova misurazione del “tempo ben speso”. I punti deboli dei rapporti online indeboliscono anche la risposta di Zuckerberg alla polarizzazione sociale. Zuckerberg osserva che favorire i rapporti delle persone tra loro e farle confrontare con opinioni diverse non basta a risolvere il problema della polarizzazione sociale: “Far leggere a una persona un articolo che presenta un punto di vista contrario al suo in realtà aumenta la polarizzazione perché fa apparire come estranei i punti di vista alternativi”. Secondo Zuckerberg, quindi, “la soluzione migliore per far progredire il dibattito è imparare a conoscersi come persone più che limitarsi a confrontare le opinioni: un obiettivo che Face book probabilmente può raggiungere meglio di chiunque altro. Se entriamo in rapporto con le persone attraverso ciò che ci accomuna – squadre sportive, programmi tv, interessi – è più facile parlare delle cose su cui non siamo d’accordo”. Il problema è che conoscersi “come persone” è molto dificile. È una cosa che richiede tempo e un’interazione fisica diretta. L’Homo sapiens medio è incapace di conoscere intimamente più di 150 persone. Idealmente, costruire una comunità non dovrebbe essere un gioco a somma zero. Gli esseri umani sono capaci di sentirsi legati contemporaneamente a gruppi diversi. Purtroppo, però, le relazioni personali probabilmente sono un gioco a somma zero. Oltre una certa soglia, il tempo e le energie che impieghiamo a conoscere i nostri amici online in Iran o in Nigeria andranno a scapito del rapporto con i nostri vicini di casa. È un buon segno che i social network invochino per primi la nascita di una comunità online. È più dificile capire fino a che punto Facebook sarà disposto a cambiare il suo modello di business per allinearsi alla sua posizione ideologica. Non si può unire l’umanità vendendo inserzioni pubblicitarie. Supponiamo che un ingegnere di Facebook inventi una nuova funzione che porta gli utenti a trascorrere meno tempo a fare acquisti online per dedicarsi ad attività significative con gli amici nel mondo reale. Facebook la adotterà o la sopprimerà? Farà un vero salto di fede anteponendo le istanze sociali ai suoi interessi economici? Se lo farà – e riuscirà a evitare la bancarotta – sarà una rivoluzione epocale. I primi guru della Silicon valley consideravano internet uno strumento per favorire la rivoluzione sociale più che per fare soldi. Negli ultimi anni la loro visione è stata manipolata e distorta. Zuckerberg riuscirà a far tornare grande internet? Incrociamo le dita. Se un’azienda fa profitti e nel frattempo offre un servizio utile alla società – che si tratti di costruire le comunità, riciclare i rifiuti o produrre dei medicinali – che c’è di male se ha successo? Allo stesso tempo, però, non bisogna alimentare aspettative irrealistiche. Storicamente, le aziende non sono il mezzo ideale per portare avanti le rivoluzioni sociali e politiche. Una vera rivoluzione prima o poi richiede dei sacrifici che le aziende, i loro dipendenti e i loro azionisti non sono disposti a fare. Ecco perché i rivoluzionari fondano chiese, partiti ed eserciti. Le cosiddette rivoluzioni di Facebook e Twitter nel mondo arabo sono cominciate tra mille speranze nelle comunità online, ma una volta approdate nel mondo offline sono state sequestrate dai fanatici religiosi e dalle giunte militari. Se oggi Facebook vuole far partire una rivoluzione globale dovrà fare di più per creare un ponte tra il mondo online e quello offline. L’azienda di Zuckerberg e altri colossi digitali tendono a considerare gli esseri umani come animali audiovisivi: due occhi e due orecchie collegati a dieci dita, uno schermo e una carta di credito. Un passo fondamentale verso l’unificazione dell’umanità sarà riconoscere che ha un corpo.
FRANÇOIS CHENG è uno scrittore, poeta e calligrafo nato in Cina nel 1929 e naturalizzato francese nel 1971. È stato eletto all’Académie française nel 2002. Questa poesia è tratta dalla raccolta La vraie gloire est ici (Gallimard 2015). Traduzione di Francesca Spinelli.