Istruzioni per sopravvivere: #viadaisocial e diventate gatti
Ci stiamo disumanizzando
Chiudere l’account di Facebook, niente Twitter né foto su Istagram: la soluzione è drastica ma necessaria
«Non dobbiamo essere docili, ma felini ribelli»
di Federica Colonna (Corriere Domenica 17/6/18)
Può essere davvero difficile immaginare la propria vita senza social media. Ma è arrivato il momento di farlo, adesso. E di abbandonare il proprio profilo Facebook, cancellare l’account Twitter, smettere di pubblicare foto su Instagram. Lo sostiene Jaron Lanier, informatico, saggista e pioniere della realtà virtuale, nel recente Ten Arguments for Deleting Your Social Media Accounts Right Now («Dieci argomenti per cancellare i tuoi profili social proprio adesso») in cui spiega una a una le ragioni per cui è urgente abbandonare i social network. Pena la scomparsa della specie umana, così come la conosciamo. Secondo l’autore, infatti, i social media stanno ingannando il nostro cervello e, attraverso l’algoritmo che ne è alla base, lo stanno manipolando fino a modificare i nostri comportamenti. Ogni nostra azione online, da un «mi piace», a un contenuto pubblicato, fino alla condivisione di un articolo sui nostri profili, è tracciata, monitorata e analizzata ai fini della profilazione degli utenti. Forniamo dati gratis e li cediamo ricevendo in cambio una offerta di contenuti il più vicina possibile alle nostre aspettative. Ma questo meccanismo è nocivo, perché altera la realtà di cui veniamo a conoscenza, sempre più simile a un mondo che ci somiglia ma che altro non è se non una titanica illusione.
Siamo più vulnerabili alla manipolazione algoritmica dei comportamenti: le piattaforme ci offrono contenuti personalizzati mirati a coinvolgerci emotivamente e potenzialmente in grado di orientare le nostre intenzioni di voto o di rafforzare la nostra fedeltà a un brand. Rischiamo di non accorgercene, immersi come siamo nel sistema. In questo contesto illusorio e fallace, la pubblicità, che prima incontravamo all’interno di contenitori riconoscibili, nella pausa della partita in tv, su un manifesto o nella pagina interna di una rivista, è diventata pervasiva. Indistinguibile. La verità si indebolisce, si affievolisce e non riusciamo più a catturarla. Siamo immersi in uno scenario di finzione, illusorio, che l’autore chiama il «grande miraggio».
Ecco il meccanismo dei social media da cui Lanier ci mette in guardia e al quale, nel libro, ha affibbiato un nome: la macchina Bummer, acronimo di Behaviour of Users, Modified, and Made into an Empire for Rent (il «comportamento degli utenti, modificato, e trasformato in un impero in affitto», che il miglior offerente può accaparrarsi). Strumento di manipolazione su larga scala e capace di crescere ora dopo ora, nutrito dai dati che cediamo ogni volta che ci connettiamo. È difficile comprendere il fenomeno analizzando solo il nostro comportamento individuale. Bummer funziona come il cambiamento climatico: non ne cogliamo i singoli dettagli ma possiamo riconoscerlo guardando il contesto intero, a livello globale.
E se l’infelicità e l’isolamento sono le conseguenze della nostra relazione quotidiana con Bummer — paragonato dall’autore a un confessore globale che detiene i segreti e i peccati di milioni di persone al mondo — sono 10, come recita il titolo del libro, gli argomenti a sostegno di una rapida fuga dal mondo dell’illusione social. Il primo: stiamo perdendo la capacità di libero arbitrio. Con lo smartphone sempre in mano siamo costantemente monitorati e riceviamo risposte su misura, contenuti costruiti per noi. Siamo come ipnotizzati, scrive Lanier, da tecnici che non vediamo per scopi che non conosciamo. Eppure crediamo di essere liberi. Cancellare gli account — ed è questo il cuore del secondo argomento — è il solo modo per sfuggire alla follia dei nostri tempi e per evitare di diventare brutte persone: più cattive, arrabbiate, aggressive. Non è un caso, spiega Lanier, che Twitter piaccia a estremisti e bulli. I social media produrrebbero infatti una sorta di potenziamento algoritmico dei peggiori tratti psicologici dell’essere umano. Non sarebbe questo un effetto collaterale ma si tratterebbe di una funzione specifica dei social network perché l’aggressività e l’estremismo sono gli strumenti emotivi più efficaci per aumentare l’engagement (il coinvolgimento): l’unico indice che davvero conta per attestare il successo sui social media. «I sentimenti negativi — scrive l’autore — emergono più velocemente e scompaiono con più lentezza di quelli positivi». Funzionano quindi meglio negli ambienti dove contano la rapidità e la tempestività delle interazioni.
Non solo. «Suicidare» il proprio io virtuale comporterebbe per Lanier un grande vantaggio: ci renderebbe più felici. Lo dimostrerebbero una serie di ricerche scientifiche tra cui uno studio del 2017 della Yale University e dell’Università della California, San Diego, intitolato Association of Facebook Use With Compromised Well-Being («Associazione tra l’uso di Facebook e un benessere compromesso»). L’indagine, pubblicata dall’«American Journal of Epidemiology», sostiene che mentre le relazioni non virtuali tra persone migliorerebbero la percezione del proprio stato di benessere, online avverrebbe l’opposto. L’uso massiccio dei social media ridurrebbe il tempo e il numero delle interazioni di persona e l’investimento individuale in attività significative e creative. In un mondo più connesso, finiamo per essere più isolati. E, aggiunge Lanier, rischiamo di diventare anche più poveri. Tutta colpa, scrive, della gig economy, ossia di quel modello di business per cui non esistono lavori stabili e a lungo termine, ma servizi realizzati in risposta a domande di volta in volta emergenti, raccolte, spesso, dalle piattaforme e dalle app. Un sistema che, per come è regolato e strutturato oggi, non rende certo ricchi i lavoratori.
Per Lanier, però, la vera vittima sacrificale dei social media non è l’economia. Ma la politica. «Dovunque arrivi Facebook retrocede la democrazia», dichiara. E l’eco ricevuto dai movimenti razzisti e dall’alt-right, l’estrema destra americana, ne sarebbero un esempio.
Insomma: lentezza, verità, empatia non stanno sui social. Per ritrovarle Chris Hughes, cofondatore di Facebook, ha proposto di istituire un fondo pubblico per i social media, orientato a potenziarne il valore per le comunità. Tristan Harris, invece, del Center for Humane Technology, non-profit focalizzata sul design di una tecnologia più etica, ha lanciato l’idea di trasformare Google, Facebook e le altre grandi compagnie in benefit corporation, affinché, data la rilevanza che hanno nella vita di ciascuno, perseguano non solo l’interesse privato ma il bene pubblico. Nel saggio Jaron Lanier lancia un’altra sollecitazione: se spingere i governi a regolare diversamente i social media o le aziende a cambiare il proprio modello di business possono essere obiettivi a lungo termine, nell’immediato è meglio trasformarsi in felini. Oggi siamo come cani, addomesticati e timorosi. Dovremmo diventare gatti, sfuggenti. Insofferenti agli ordini e al controllo altrui.