Il voto agli studi umanistici
di Maurizio Bettini (Repubblica 25/6/14)
RECENTEMENTE all’Università italiana sono stati assegnati dei parametri “oggettivi” per la valutazione della ricerca anche in campo umanistico. È stata definita la tipologia delle pubblicazioni (libri, articoli su rivista, capitoli su libro, etc.); e soprattutto le riviste sono state divise in tre fasce di valore decrescente, a partire dalla A: di modo che a un certo articolo viene già assegnato un peso “oggettivo” ancor prima di essere letto, solo in base alla rivista su cui è apparso. Il problema è che questa parametrazione non viene utilizzata, come accade in molti altri Paesi, semplicemente per valutare la ricerca e migliorarne la qualità: ma per determinare la carriera delle persone. Di essa ci si serve infatti in occasione delle Abilitazioni scientifiche nazionali.
Per esservi ammessi i candidati debbono presentare un numero di pubblicazioni, rispondenti ai suddetti parametri, tale da superare alcune “mediane” predeterminate. Sorprendentemente, però, per presentarsi alle abilitazioni da ordinario in qualità di commissario, è sufficiente superare le medesime “mediane” richieste anche ai candidati: fra gli ordinari in possesso di questi requisiti, viene poi fatta una scelta tramite sorteggio. Dato che le mediane in questione sono spesso basse, a valutare chi è idoneo o meno per l’ordinariato possono dunque essere persone che hanno una produzione meno significativa di coloro che valutano, come in effetti è accaduto. In più, visto che ormai i settori concorsuali raggruppano (spesso sciaguratamente) discipline remote fra loro, molti candidati finiscono anche per essere valutati da commissari che non hanno competenza sulle loro ricerche, perché si occupano di altro. Facile constatare che l’adozione di parametri “oggettivi”, specie se associati al principio dell’estrazione a sorte all’interno di gruppi eterogenei, non risolve il problema della qualità delle commissioni. Come si sa, le recenti abilitazioni sono state un disastro (fonti autorevoli parlano di 2.200 ricorsi già in atto). Concentrare l’attenzione solo su questo problema, però, rischia di oscurarne un altro, che incide direttamente sulla sostanza della ricerca in campo umanistico. Parliamo ancora di parametri “oggettivi”. Sempre ai fini dell’abilitazione, infatti, il peso di una monografia equivale spesso a quello di un articolo pubblicato in fascia A. Ma chi scriverà più libri, sapendo che valgono quanto una noterella purché in A? Se mai ci si preoccuperà di “affettare il salame”, segmentando cioè la progettata monografia in più articoli. E ancora: una monografia originale ha lo stesso valore della traduzione di un testo straniero. Qualora non si disponga di salami da affettare, si potrà dunque tradurre la monografia scritta da un altro.
L’effetto peggiore sulla ricerca umanistica, però, lo produce la classificazione gerarchica delle riviste (peraltro spesso scientificamente infondata). Il fatto che pubblicare in una certa sede non sia più questione di prestigio, ma di carriera e spesso (ahimè) di sopravvivenza, provoca una corsa a pubblicare nelle riviste più quotate. Questo però implica uniformarsi alle linee di ricerca proprie di tali riviste e gradite a chi le gestisce. Ma che accade se si seguono metodi e prospettive originali? Li si abbandona. Come se non bastasse, le riviste riconosciute come A in una certa area concorsuale, possono non esserlo in un’altra, pur scientificamente contigua: di conseguenza si tenderà a pubblicare il più possibile all’interno del proprio ristretto settore di studi. Questo significa che i ricercatori – soprattutto i giovani, accademicamente più fragili – si rinserreranno sempre più nei loro “paeselli” disciplinari. Solo che negli studi umanistici la ricerca non si fa continuando a portare una pietruzza dopo l’altra al glorioso edificio costruito da chi ci ha preceduto, ma con il continuo incrocio dei metodi e dei modelli di pensiero, insomma con l’apertura interdisciplinare. Proprio ciò che la valutazione così com’è stata concepita tende nei fatti a scoraggiare, quando non a punire. La classica formula: «Le pubblicazioni del candidato esulano dal presente settore concorsuale» – usata spesso per eliminare gli studiosi più indipendenti e originali – attraverso la classificazione gerarchica delle riviste riceve una sorta di sigillo legislativo. In realtà dovremmo sapere che l’unico metodo per valutare, come meritano, le pubblicazioni di qualcuno, consiste nel farle leggere a studiosi che siano competenti dello specifico filone di ricerca in cui queste si collocano; non a un commissario estratto a sorte, all’interno di un gruppo composito, e che parte da parametri “oggettivi”.
È dunque indispensabile ridiscutere tutti i criteri utilizzati per la valutazione degli studi umanistici. Se vogliamo che essi abbiano un futuro, ne deve essere promossa – e non depressa – l’interdisciplinarietà. Come minimo è indispensabile attribuire lo stesso valore a tutte le riviste di area umanistica, indipendentemente dai vari settori e sotto-settori a cui afferiscono, per impedire la progressiva chiusura degli orizzonti. E anzi, ai requisiti da valutare al momento delle abilitazioni, è auspicabile aggiungere esplicitamente la “interdisciplinarietà” della produzione come coefficiente positivo. Al termine di un affollato dibattito in Sapienza su questi temi, una giovane ricercatrice mi ha detto: «Invece di studiare quello che dovrei, studio i settori scientifico-disciplinari ». Purtroppo aveva ragione. Da quella riunione è emerso però un documento, proposto da Antonio Pioletti, che affronta questi e molti altri problemi relativi alla valutazione della ricerca in campo umanistico. Il testo sta circolando fra le varie consulte di studi, e ci auguriamo che susciti presto una risposta da parte di chi ci governa.