Il #robot vince anche a poker Il futuro? Si chiama #cyborg (MASSIMO GAGGI, La Lettura, Corriere, 26/2/17)

Il computer Watson di Ibm ha sbaragliato da anni tutti gli umani in Jeopardy!, il telequiz più popolare negli Stati Uniti, e un supercomputer ha battuto i migliori scacchisti del mondo. Ma Claudico aveva fallito: per due anni l’intelligenza artificiale costruita dai computer scientist della Carnegie Mellon University di Pittsburgh per sfidare i professionisti del poker aveva tentato invano di batterli.

Niente da fare: le tecnologie digitali, che funzionano magnificamente se vedono l’intera scacchiera e possono calcolare tutte le opzioni, andavano in tilt in un gioco a carte coperte nel quale il computer ha a che fare con informazioni nascoste o, comunque, incomplete. Un sospiro di sollievo per i pokeristi, ma anche per chi teme che l’Ai ( Artificial Intelligence ) diventerà prima o poi talmente potente da sovrastare quella umana sfuggendo al suo controllo: il computer si ferma dove entrano in gioco variabili umane imprevedibili, come la spregiudicatezza del giocatore e il tentativo di confondere l’avversario con mosse volutamente irrazionali, l’astuzia o, per dirla con un termine proprio del poker, il bluff.

Corollario di questa lezione dall’evanescente mondo del gioco d’azzardo: se è vero che l’automazione ha già «mangiato» molti posti di lavoro nelle fabbriche, nei supermarket, in banca, e molti altri ne sta demolendo nei servizi professionali, ci sarà sempre una quota di lavori non automatizzabili perché legati a sensibilità umane – dall’empatia all’abilità negoziale.

Ragionamenti più o meno confortanti spazzati via alla fine di gennaio, quando Libratus, versione aggiornata di Claudico messa a punto alla Carnegie Mellon da Tuomas Sandholm e da Noam Brown, un professore e uno studente che sta per ottenere un PhD, ha sfidato i quattro migliori pokeristi d’America in un torneo di venti giorni al Rivers Casino di Pittsburgh. All’inizio Dong Kim, Jason Les, Jimmy Chou e Daniel McAulay erano sicuri di spuntarla, come due anni prima. Ma stavolta, con un algoritmo più raffinato, capace di interpretare le mosse degli umani e di replicare nello stesso modo imprevedibile, le cose hanno preso una piega diversa. A metà gara l’esito era incerto ma, grazie alla capacità della macchina di imparare dall’esperienza, giocata dopo giocata il computer, ormai capace di bluffare in modo più spregiudicato degli umani, ha sbaragliato il campo.

«Libratus alla fine ci ha schiacciati, è stato deprimente», ha confessato Jason Les, uno che due anni fa aveva battuto senza troppe difficoltà Claudico. «In genere se perdi una mano ti fermi, chiedi tempo, rivedi le strategie, torni al tavolo e le cose cambiano. Con Libratus no: alla fine era una sconfitta dietro l’altra».

I quattro moschettieri trasformati in cavie hanno sfidato il computer a «Heads Up No Limit Texas Hold’em», la versione più complessa del poker. Undici ore di gioco tutti i giorni. Ogni sera fine della sessione alle 10, cena, riesame delle partite della giornata e revisione della strategia. A letto alle 2 di notte. Nel frattempo Libratus, che non dorme e non cena, veniva collegato da Sandholm e Brown al supercomputer dell’università di Pittsburgh per aggiornare l’algoritmo e la strategia sulla base dell’esperienza. Alla fine del torneo i quattro pokeristi avevano perso un milione e 776 mila dollari. Per loro fortuna in fiches senza valore.

Come hanno fatto i due computer scientist a ottenere risultati così diversi rispetto a due anni fa? «Non abbiamo spiegato a Libratus come si gioca a poker», racconta Brown. «Gli abbiamo detto di imparare da solo. E il robot ha cominciato a giocare a caso migliaia di miliardi di mani, perfezionando sempre più la sua strategia».

È la nuova frontiera del machine learning, le macchine che imparano da sole e migliorano le loro capacità, le cui applicazioni vanno ben oltre il poker. L’algoritmo di Libratus, ad esempio, verrà usato per altre attività nelle quali l’operatore non dispone di informazioni complete o deve ricorrere a tecniche simili al gioco d’azzardo. Libratus condurrà negoziati d’affari, aiuterà a definire le strategie militari sui campi di battaglia e assisterà la compravendita di titoli sui mercati finanziari con la tecnica dell’ high frequency trading.

Dunque campi molto vasti, dal Pentagono a Wall Street, passando per la possibilità di digitalizzare anche la trumpiana Arte di fare affari (Sperling & Kupfer). E chissà che, davanti alla prospettiva di vedere la sua «bibbia» spazzata via da un robot, il presidente che per ora si è concentrato sui posti di lavoro persi per il trasferimento di stabilimenti in Asia e in Messico, non decida di sparare a zero anche sull’impatto delle tecnologie digitali sull’occupazione. Il suo modo a dir poco irruento di fare politica travolge l’esistente e, se non teme di pagare cara l’accusa di essere un demolitore delle garanzie costituzionali, è difficile che si preoccupi della fama del luddista che potrebbe farsi se decidesse di frenare le applicazioni industriali più esasperate dell’intelligenza artificiale. Tanto più che qui danneggerebbe in primo luogo imprese «nemiche», quelle della Silicon Valley.

Ma alla fine, anche se poco abituato alle sfide in campo aperto sui mercati ed esponente di un capitalismo, quello delle costruzioni, che tende ad appoggiarsi alla politica, Trump è pur sempre un imprenditore: difficile che blocchi un’automazione che è ormai ovunque, dai robot nelle miniere della Rio Tinto a quelli che sostituiscono l’uomo nella gestione dei pozzi petroliferi del Texas. Mentre l’intelligenza artificiale dilaga nelle professioni: dalla contabilità all’interpretazione dei test clinici, dal fiscalista digitale «Turbotax» fino (ahimè) al giornalismo, con redattori robot che già compilano gli articoli sportivi e finanziari più semplici, mentre alcune testate stanno sperimentando algoritmi più sofisticati, capaci di costruire storie dal linguaggio fantasioso e complesso.

In ogni caso Trump dovrà cercare altri canali per sostenere l’occupazione. E qui lo sforzo di mettere in piedi un piano di infrastrutture pubbliche da mille miliardi di dollari si sposa col genio visionario di Elon Musk: prima del voto era un suo nemico giurato nella Silicon Valley, ma ora Trump l’ha riscoperto e, soprattutto, l’ha scoperto il suo stratega Steve Bannon, affascinato dai progetti futuribili alla Jules Verne di Elon: la conquista di Marte, l’alta velocità hyperloop e migliaia di chilometri di autostrade sotterranee per decongestionare il traffico, scavate da una «talpa» alla quale l’industriale-inventore sta già lavorando.

Elon Musk ci porta anche in un’altra dimensione dell’intelligenza artificiale: il nodo della sua controllabilità da parte dell’uomo. Tempo fa aveva unito la sua voce a quella, preoccupata dalla prospettiva di una rivolta delle macchine contro l’uomo, di imprenditori e scienziati come Bill Gates e Stephen Hawking. Ora Musk va oltre: «Gli esseri umani devono fondersi con le macchine se non vogliono diventare irrilevanti. Una simbiosi tra banda larga e cervello ci aiuterà a non farci scavalcare dalle macchine e a risolvere il problema del controllo. Non c’è alternativa in un mondo nel quale i computer comunicano a mille miliardi di bit per secondo, mentre gli umani digitano sulle tastiere dei dispositivi mobili al massimo a 10 bit per secondo». Il cyborg esce dai film di fantascienza ed entra nell’agenda del nostro futuro tecnologico.

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