Il potere di-vino che lega #Gesù ai #ritidionisiaci
Tra #ebbrezza e #pathos tutto il fascino mistico della bevanda più antica
di Marino Niola (Repubblica 11/7/15)
«CHI beve #vino è civile, chi non ne beve è barbaro». Lo dicevano i Greci facendo del succo della #vite il simbolo alimentare dell’identità ellenica, concepita come la forma più compiuta di umanità. La bevanda che spumeggia nelle coppe è un dono di Dioniso, per i romani Bacco, il dio straniero per antonomasia, che irrompe nella scena
mitologica mascherato, circondato da un corteggio di baccanti e di satiri, alla guida del suo carro coperto di foglie e di pampini, tirato da tigri e pantere profumate per portare agli uomini il suo dono prezioso. Ma anche pericoloso. Perché il nume dell’ebbrezza e della forza vitale introduce nella società un caos positivo, un disordine creativo che è necessario accettare, ma che è altrettanto necessario saper controllare. Non a caso la tragedia, che nasce ad Atene proprio dai rituali dionisiaci, mostra spesso le conseguenze di un rapporto incontrollato con il fermento che il dio introduce nei diversi luoghi dove si ferma per insegnare l’arte della spremitura e della fermentazione della vite. Il teatro, infatti, rivela la tensione tra le due metà dell’essere. Fa affiorare la verità nascosta dietro la maschera. Mette in scena il conflitto tra la mania profetica, ispirata dal dio divinatore e la ragione quotidiana. Il pathos che si mescola al logos. Come il vino all’acqua.
Dioniso insomma rappresenta il bios allo stato nascente ed effervescente. Succo della vite e succo della vita. Ecco perché l’intensità del rapporto con il dio dei pampini deve essere accuratamente calibrata. Proprio come fanno i Greci, quando diluiscono la bevanda alcolica per controllarne il potere inebriante. In questo senso si può dire che se la civiltà misura il vino, il vino misura la civiltà.
Solo i bruti bevono il nettare della vite senza diluirlo. Come fa Polifemo, il bestione-cafone che per il Greci è il campione dell’inumanità. E finisce bellamente uccellato da Ulisse, che gli offre vino purissimo, prodotto dal figlio del sacerdote di Apollo. Le istruzioni per l’uso consigliano di mescolare una dose di questo fuoco liquido con venti d’acqua. E invece il babbione con un occhio solo se lo tracanna superconcentrato. E passa improvvisamente dal vedere la metà al vedere doppio. Per poi finire accecato, dalla sua ingordigia ferina, prima ancora che dal palo ardente che Ulisse gli conficca nella pupilla. Il carattere smodato e intemperante degli appetiti di Polifemo fa pendant con la sua mancanza di ospitalità, collocando il feroce monocolo sul versante opposto di quello dionisiaco, fondato invece sull’accoglienza dello straniero, ma anche sulla convivenza con la parte straniera di sé. Il vino è uno specchio per vedere attraverso l’uomo, dice Alceo, il celebre poeta, che non si sa se fosse più sommo o più sommelier. Visto che a lui si deve la consacrazione del proverbiale binomio vino e verità, «oinos kai alathea», passato alla storia come «in vino veritas». Non a caso la funzione culturale del vino ha nella mitologia mediterranea il suo paradigma filosofico nel simposio. Parola che deriva dal greco symposion: da syn, insieme e pino, bere. Nel corso del convivio, il rapporto tra vino e socialità si rivela in tutta la sua profondità. Il rito, reso celebre dall’omonimo dialogo di Platone, inizia quando il simposiarca, che guida il consesso e modera la discussione, stabilisce le parti di vino e di acqua da mescolare, oltre al numero di coppe che ogni commensale dovrà bere. Obbligatoriamente. Se non vuole trasgredire le leggi della comunità.
E che il succo della vite sia un simbolo di comunione lo prova la sopravvivenza di alcuni usi e costumi connessi al bere nella civiltà moderna. Come il tradizionale scambio di vino nelle osterie europee, che trasformava degli sconosciuti in commensali. O i brindisi che scandiscono matrimoni, lauree e tutte le occasioni importanti. Insomma accettare il vino significa aprire all’altro. Rimandare al mittente il dono può essere una dichiarazione di guerra. Come quella di Alfio, protagonista della Cavalleria
rusticana di Mascagni, che rifiuta pubblicamente di brindare con Compare Turiddu. «Grazie ma il vostro vino io non l’accetto, diverrebbe veleno entro il mio petto». A quel punto la tragedia è inevitabile. E a scorrere sarà sangue vero, non quello metaforico di Dioniso. Che Euripide definisce letteralmente un dio da bere, «versato in libagione». Una vittima sacrificale cui «gli uomini sono debitori di ogni bene». E improvvisamente in queste parole lampeggia quel filo che unisce Dioniso a Cristo. Le due divinità liquide. I due stranieri che portano il fermento nella collettività e la rigenerano.
In realtà il fattore maggiormente decisivo di questa longevità simbolica del vino è proprio la sua adozione da parte del cristianesimo che lo traduce nella sua teologia e nella sua liturgia facendone, insieme al pane, la sostanza sacra del sacramento eucaristico. Così i due emblemi alimentari del Mediterraneo antico, si transustanziano nel corpo e nel sangue di Cristo. E più la Chiesa rende centrale il ruolo della bevanda nell’eucaristia, più l’Islam prende progressivamente le distanze dal sangue di Bacco. Anche se in realtà nelle prime sure del Corano, quelle della Mecca, il vero musulmano non deve essere astemio. È con le successive sure di Medina, quando la religione del Profeta si trasforma in politica, che il vino diventa tabù. A riprova del fatto che la dieta mediterranea è inseparabile dalle vicende dei tre grandi monoteismi. Insomma, il vino spara fulmini e barbariche orazioni che fan sentire il gusto delle alte perfezioni. Parola di Paolo Conte.