Il #paradosso in #cattedra: meno alunni, più docenti

Eugenio Bruno e Claudio Tucci (Il Sole 24 Ore, 12/9/18)

Il pensiero economico è pieno di grafici che “parlano”. Si pensi alla “coda lunga” che, con la sua forma simile alla schiena di un brontosauro, ha rivoluzionato le regole del marketing e ha fatto la fortuna dei colossi del web. Lo stesso può dirsi per la scuola italiana. Il “tridente” rappresentato qui accanto certifica, innanzitutto visivamente, l’esistenza di un paradosso tutto tricolore: a una contrazione, progressiva e fisiologica, degli alunni è seguito un aumento, esponenziale e per certi versi patologico, dei docenti. Come dimostrano i dati diffusi dal ministero dell’Istruzione in concomitanza con l’avvio delle lezioni: in quattro anni gli studenti sono calati di 200mila unità mentre i prof sono cresciuti di quasi 100mila. Numeri che aiutano a leggere meglio la fotografia annuale dell’Ocse sull’istruzione «Education at a glance 2018». Il paper, tra le altre cose, conferma l’inesistenza di un qualsivoglia carriera degli insegnanti. Che – anche perché troppi (oltre 822mila, ndr) ma questo l’organizzazione parigina non lo dice – sono i più anziani dell’Occidente e anche tra i meno pagati. Per tutta la loro vita lavorativa.

Della mole di dati che il rapporto dell’Ocse, presentato ieri alla Luiss a Roma dall’Associazione TreeLLLe, fornisce sono quattro quelli che balzano agli occhi. Il primo è l’età media di maestre e professori: ha più di 50 anni il 58% dei prof contro il 35% di media. Complice l’assenza di chance di ingresso di giovani laureati e un turn-over votato, da almeno 20 anni, a stabilizzare i precari “storici”.Il secondo elemento che spicca è il rapporto alunni/docenti: alla primaria, ad esempio, è di 11 a 1; anche qui un dato molto distante dalla media Ocse, 15 a 1, ma anche dalla media Ue a 23, dove il rapporto studenti/maestre si ferma a un più ragionevole 14 a 1. Un’ulteriore conferma che da noi gli insegnanti sono troppi. In realtà, e veniamo così alla terza peculiarità da segnalare, l’elevato numero di docenti penalizza anche la stessa categoria. Lo dicono i livelli medi dei salari, di gran lunga inferiori rispetto a paesi come Francia, Inghilterra, e Germania. Alle superiori dopo 15 anni di servizio lo stipendio di un professore italiano è di 38.581 dollari; ebbene, il gap con i colleghi occidentali oscilla tra i 10mila e i 15mila dollari. Senza accennare al riconoscimento del merito in busta paga, che in Italia è quasi sconosciuto: i 200 milioni di euro introdotti dalla Buona Scuola sono stati boicottati negli istituti. Anzi, una fetta è andata a finanziare i rinnovi contrattuali ed essere distribuita indistintamente a tutti. Il quarto dato bollinato è il “mezzo tradimento” dell’autonomia scolastica: introdotta nel 1999 da Luigi Berlinguer è ancora a metà del guado, visto che il 52% delle decisioni viene preso a livello centrale, vale a dire dal Miur (contro il 24% dell’Ocse).

Tutto ciò mentre la spesa per istruzione resta inferiore alla media: 3,9% del Pil contro il 5% generale. Ma una doppia precisazione è d’obbligo. La prima è che a pagarne il conto è soprattutto l’università. A testimonianza del fatto che nella scuola più che poco si spende male, considerato che quasi il 90% dell’esborso pubblico serve per pagare i docenti. La seconda avvertenza è che questi numeri non tengono ancora conto dei 3 miliardi di liquidità iniettati dalla legge 107: la vera responsabile del boom di assunzioni partito a settembre del 2015, che ha generato quel boom di cattedre completamente svincolato dal trend delle iscrizioni descritto in precedenza. Senza peraltro riempire le decine di migliaia di cattedre vuote al Nord. Che tali sono rimaste. Di paradosso in paradosso.

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