Il libro di Andrea #Carandini
#Mediterraneo e fuoco: i #padri di #Roma
di Paolo Conti (Corriere 8/3/16)
«Che il culto di Vesta al Foro sancisca la nascita della città-stato e quindi di Roma è parere unanime degli studiosi. Senza fuoco pubblico non si danno né città greche, né latine». Impossibile pensare la storia religiosa, e parallelamente anche politica, della cultura greco-romana senza quel simbolo di vita e di potenza: il fuoco. È probabilmente in quella frase il perno intorno al quale ruota l’ultimo libro dell’archeologo Andrea Carandini ( Il fuoco sacro di Roma.Vesta, Romolo, Enea , Laterza, pagine 166, e 18). Che è insieme diario di scavo (il Palatino, dalla metà degli anni Ottanta in poi), di vita personale, di polemiche culturali, di storia di Roma (con un affascinante corredo dei falsi miti, rivisti dai Potenti per addomesticare la storia, di cui è costellata), insomma, dell’intera civiltà mediterranea.
Carandini ricorda subito il rito fondativo delle polis greche, con la collocazione del focolare pubblico, luogo del pasto rituale collettivo e simbolo del centralismo delle città-stato. Quelle sono le fondamenta di tutto. E poi, approdando al simbolo di Vesta, l’archeologo ci ricorda un illuminante parallelo: così come Romolo era nato dall’unione del divino Marte con la vergine Rhea Silvia, così Gesù Cristo nei Vangeli viene indicato come figlio di Dio e della vergine Maria. È l’unico tessuto religioso, e mitico, che tiene insieme il Mediterraneo: proprio quel mare che aveva permesso ad Enea («Vinto e profugo», ricorda l’autore) di approdare sul litorale laziale per avviare la stirpe destinata a generare Romolo (uno dei tanti punti forti del libro sta nel corredo grafico: le cartine geografiche contestualizzate, le ricostruzioni dei luoghi e degli edifici, gli alberi genealogici che aiutano a districarsi tra dèi lussuriosi, eroi erranti, mogli, figlie e amanti).
Carandini, nell’incipit, polemizza con quei tanti «umanisti saputelli, in scarsa sintonia con lo stile mentale del tempo nostro» che non hanno preso in considerazione «la scienza degli analfabeti», ovvero le vicende della protostoria, trattata con disdegno «da storici superbi». E invece l’immensa mole di dati, che Carandini offre nel libro seguendo il filo narrativo del fuoco, nasce da quella lunga, ricca campagna di scavi a Roma che «ha trasformato noi archeologi classici in protostorici, altamente ispirati dal protostorico Renato Peroni, e ha predisposto il nostro gruppo a una comprensione integrale del luogo di Roma». Il ritrovamento delle prime capanne di Roma «risparmiate per caso oppure neanche viste dai precedenti scavatori» ha prodotto una rinnovata comprensione della storia romana «soprattutto tra la fine del X secolo a.C. e il VI secolo a.C.». E qui arriva, giustamente, la rivendicazione di aver dato vita a quell’ Atlante di Roma antica considerato dall’archeologia contemporanea ormai un punto di riferimento per qualsiasi studio successivo.
Il saggio di Carandini è dunque una sorta di «atlante narrato» di Roma accontentando mille possibili curiosità con l’arma della ricerca scientifica: tutti i privilegi (e le restrizioni) della vita di una vestale, che rischiavano il seppellimento da vive nel caso di impurità; la duplice fondazione di Roma (il noto 21 aprile e la seconda, con la consacrazione da parte di Romolo e di Tito Tazio di un bosco a Vesta, «presupposto della creazione del Foro»). E via narrando. Fino a una conclusione legata alla cronaca viva: «Il mare di Sicilia pullula di profughi, che scappano da orribili tragedie: le tante Troie oggi distrutte. Di fronte a un profugo bisognerebbe porsi questa domanda: ‘se fosse un altro Enea?’». Potenza dei miti, intatti anche in questi nostri disastrati giorni.