IL #LATINO IN #TRE #PUNTATE
#Nicola Gardini #sole24ore aprile 2016
Prima puntata – La costruzione della lingua eterna
Cicerone non ci ha lasciato solo un geniale artificio linguistico-letterario ma un sistema di valori che per millenni ha saputo risuonare nei nostri discorsi
Lo studente liceale dovrebbe avere chiaro che il latino che gli viene insegnato è il latino letterario. Questo è una lingua artificiale (non più, a ogni modo, di quella di un Petrarca o di un Manzoni), tutto sommato uniforme, pur nella varietà dei temperamenti stilistici, che sono moltissimi, e nella durata millenaria della pratica scritta. Ma, è cosa risaputa, la scrittura è più conservatrice del parlato e permette fedeltà, quando non veri e propri restauri, che all’esecuzione orale sono negate.
Il latino diventa “classico” nell’ultimo periodo repubblicano, quando si sviluppa tutta una cultura della parola regolata e della norma, una vera e propria “ideologia grammaticale”, che mira a darsi, in un clima di complessità politica e nella ricerca di un’ultima autolegittimazione culturale, statuti e credito in rapporto e anche in tardiva concorrenza con la tradizione della grande oratoria greca. Caratteristiche precipue di questo “latino nuovo” sono la regolarità, l’uniformità ortografica, la chiarezza semantica e la complessità sintattica, la cosiddetta ipotassi, in cui il congiuntivo la fa da principe e gli utilizzi di questo sono dettati da criteri convenuti. Tali caratteristiche il latino letterario le mantiene per tutti i secoli a venire, distinguendosi nettamente sia dal cosiddetto “latino scolastico” del medioevo, brutto, sgraziato e stonato, sia dal “latino franco” della comunicazione internazionale, della burocrazia, della ricerca antiquaria, della chiesa, della giurisprudenza e della scienza (che corre parallelo e avrà ancora lunga vita). Quando Petrarca tuona contro il latino di Dante (che è appunto quello medievale) e pochi decenni dopo Lorenzo Valla, con accresciuta competenza, si impegna a restaurarne le raffinatezze, hanno in mente appunto il latino letterario, del quale è stato teorizzatore e simbolo vivente Cicerone. Con il nome di questo scrittore si è identificato per secoli e ancora si identifica, sia nelle scuole sia fuori, il concetto stesso di lingua latina, e un classicismo trans-storico, universale. Dalle sue numerose opere superstiti, che portano a livelli d’eccellenza il trattato retorico, il saggio filosofico, quello di linguistica, l’orazione giuridica e la lettera privata, si sono tratte prove di uso corretto, stilemi e forme di oratoria fin dall’antichità.
Il buon latino, nel progetto ciceroniano, richiede non semplicemente il rispetto dell’uso (consuetudo), che può essere fuorviante, ma l’ossequio a un metodo (ratio), a principi certi (Brutus 258). Ciò stabilito, Cicerone non affida mai il suo programma grammaticale all’applicazione oltranzistica del precetto, avendo sempre in cuore di promuovere un ideale di eleganza che metta d’accordo nella prassi storia della lingua, uso e regolarità; diciamo, un’adattabilità alle circostanze che pur non venga mai meno al perseguimento dell’eccellenza e alla soavità formale.
Mirare, anzitutto, alla chiarezza: “oratio […] lumen adhibere rebus debet”, “la lingua deve portare luce alle cose” (De oratore III, 50). E, pertanto, praticare la coerenza e la correttezza morfologica, evitare l’ambiguità, non coltivare l’eccesso metaforico, non prolungare o spezzare le frasi a capriccio e bandire l’arcaismo e l’espressione grezza, quella rozzezza campagnola (la cosiddetta rusticitas) che in passato era salutata come segno di distinzione e cifra della tradizione. L’ortodossia linguistica, così, è promossa a prerogativa cittadina, urbanitas, appunto, perché la capitale dell’impero (Urbs) è adesso anche il luogo in cui si elabora la lingua perenne.
Cicerone pone al cuore della sua teoria linguistica la capacità lessicale, alla quale istruirsi fin dalla fanciullezza attraverso lo studio della letteratura e la pratica quotidiana: scegliere le parole più adatte all’argomento e ai tempi (che sono poi non parole di un vocabolario speciale, ma le parole di tutti, retori o persone qualunque) e combinarle secondo correttezza sintattica e convenienza ritmica. La musicalità è data per essenziale. Le parole devono seguire un flusso melodico, che non ingeneri sazietà e dia un’impressione di ordine artistico, libero e controllato a un tempo. Vorrei attirare l’attenzione del lettore su una coincidenza che permette di considerare il ritmo (numerus in latino) ben più che un accorgimento eufonico. Nel sesto libro del De re publica, il trattato di filosofia politica che Cicerone compose tra il 54 e il 51 a. C., Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine, sogna di incontrare in cielo l’antenato Africano, vincitore della seconda guerra punica. Dialogando con lui, scopre la struttura dell’universo, la piccolezza della terra, l’immortalità dell’anima e la vanità della gloria. Si tratta di uno dei passi più alti di tutta la letteratura latina, che grande fortuna ebbe nella tarda antichità e nel medioevo (è, per esempio, tra le fonti del paradiso dantesco). Nel De oratore Cicerone descrive gli aspetti del ritmo con lo stesso vocabolario con cui nel sogno di Scipione descrive l’armonia sonora dei corpi celesti. Dunque, è come se nella frase, attraverso un regolato alternarsi di durate musicali, si ripetesse, anzi si dovesse ripetere niente meno che l’ordine stesso del cosmo.
Ma il latino ciceroniano non è solo artificio linguistico: è anche – e questo ne fa il tesoro che è – il mezzo attraverso cui si è formato tutto un sistema di valori, tutta una riflessione sull’essere umano, che ha avuto la capacità di risuonare per secoli. In quel latino vizi, virtù e doveri trovano una loro definizione e – fatto essenziale – l’eccellenza linguistica è data come espressione di un’eccellenza spirituale. In pratica, non si dà superiorità etica se non nella forma di discorso perfetto. Perché parlare bene è un sapere da cui discendono non solo i bei discorsi, ma l’organizzazione stessa del mondo civile: costumi, leggi, governi. Parlare bene è una filosofia; è pratica di giustizia e creazione di felicità. Parlare (o scrivere) bene è essere buono; è difendere i valori più alti della comunità; la libertà stessa. E Cicerone in persona l’ha dimostrato mettendo la sua eloquenza al servizio della società minacciata dalla tirannide. Possiamo dire che la lingua latina assurge a tanta eccellenza grammaticale nella pratica e nella riflessione di Cicerone, che fu nemico giurato di qualunque dispotismo ed eroico portavoce del senato, proprio in quanto strumento di libertà, libertas, una delle parole che gli erano più care.
1-continua
Nicola Gardini
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Seconda puntata – Cesare architetto della lingua
Nel «De bello gallico» tutto avviene con precisione, per una certa ragione, in vista di certi fini e con certe conseguenze
A scuola era festa quando la professoressa dava da tradurre in classe un branetto di Cesare (101 o 100 a. C.-44 a. C.). Tra gli studenti questo autore passava per facile. In effetti, anche i meno preparati se la cavavano con un numero di errori non penalizzante, né per se stessi né per il senso dell’originale. Perfino la professoressa, che amava l’arduo e il contorto, minimizzava le difficoltà dei brani assegnati in classe con uno sprezzante: «Roba da Cesare». Nessuno sospettava – né la scuola purtroppo dava indicazioni – che attraverso la presunta facilità di Cesare il genio del latino si era realizzato in una delle sue forme più perfette.
Il De bello gallico, l’opera di Cesare meglio conservata, racconta la conquista della Gallia (58 a. C.-51 a. C.). Più precisamente: racconta intenzioni e risultati, e le risoluzioni prese sull’emergenza. I fatti cadono fatalmente nel solco della strategia. Ne esce una galleria di vittorie, la vittoria altro non essendo che il superamento di certe difficoltà. Il testo si è composto via via attraverso i dispacci in terza persona con cui l’autore teneva al corrente il senato delle sue imprese militari e che forse dovevano costituire la base per un racconto più ricco da scriversi a guerra finita. Non mi soffermerò qui sul valore ideologico e propagandistico dell’opera, né sul fatto – commovente e sconcertante – che qui sentiamo parlare uno degli uomini più insigni dell’antichità e che ci parli di una delle campagne militari che più hanno segnato la storia mondiale, spostando il controllo di Roma da oriente a occidente. Qui voglio indicare solo quello che, attraverso Cesare, il latino ha avuto la capacità di realizzare.
Cesare è stato sia un grande scrittore sia un importante teorico della lingua latina. Da varie fonti sappiamo che compose un trattato intitolato De analogia, di cui restano solo pochi frammenti. Dedicatario era niente meno che Cicerone. Un’idea del contenuto, comunque, possiamo farcela: doveva trattarsi di una difesa del buon latino e in particolare del corretto uso della morfologia. «Analogia» è termine greco e indica nella riflessione antica sulla lingua un’estensiva applicazione della regolarità, dell’uniformità e della coerenza morfologica: si contrappone all’ideale dell’«anomalia», basato sulla proliferazione e sulla varietà delle forme. Principio guida degli analogisti è la semplificazione: via le varianti, via gli arcaismi, via le fluttuazioni desinenziali. Cesare riformò anche il calendario romano, liberando il computo del tempo da incertezze e imprecisioni (il calendario giuliano, cosiddetto, fu utilizzato fino al 1582, quando lo sostituì il calendario gregoriano, ancora più esatto). Possiamo dire che in fatto di lingua obbediva a un simile razionalismo, a una simile volontà di contenimento e di misurazione. La geografia, non a caso, era uno dei suoi interessi principali. Sappiamo da fonti tarde che a un certo punto incaricò quattro greci di esplorare l’oikoumene, ovvero la terra abitata. È evidente che in queste ricerche si riflette anche il pragmatismo dell’uomo d’armi.
Razionalismo e pragmatismo si riscontrano anche nell’opera superstite. Tutto ha una spiegazione, tutto è scomponibile in parti ed elementi primi, come se l’oscuro o il vago delle motivazioni profonde qui non avessero diritto di cittadinanza, anzi non esistessero per nulla (per questi occorrerà rivolgersi a Livio e a Tacito). La prima frase dell’opera è proprio un esempio di scomposizione: «Gallia est omnis divisa in partes tres…», «La Gallia è, tutta, suddivisa in tre parti…» Scomporre significa calcolare: ecco apparire, appunto, il numerale. Distanze, estensioni, profondità e computi vari – di spazi come di giorni – saranno tratti distintivi dell’intero racconto.
Il De bello gallico, alla fine, è l’avventura di una lingua che ricrea il mondo aritmeticamente e geometricamente, e organizza le frasi secondo rapporti esatti di causa ed effetto e in tempi precisamente enucleati. Dominanti sono anche l’idea di fine e quella di conseguenza, poiché non si dà fatto che non persegua un suo scopo o non provochi qualche cambiamento.
La lingua, insomma, è racconto di qualcosa che avviene in un certo momento e che avviene per una certa ragione, e in vista di certi fini e con certe conseguenze. Ecco una frase tipica:
His rebus gestis, Labieno in continenti cum tribus legionibus et equitum milibus duobus relicto, ut portus tueretur et rem frumentariam provideret, quaeque in Gallia gererentur cognosceret consiliumque pro tempore et pro re caperet, ipse cum quinque legionibus et pari numero equitum, quem in continenti reliquerat, ad solis occasum naves solvit… (De bello gallico, V, 8)
Compiute queste faccende, lasciato Labiento sul continente con tre legioni e duemila cavalieri, affinché sorvegliasse i porti e provvedesse al rifornimento granario, e venisse a conoscere quello che accadeva in Gallia e prendesse decisioni secondo il momento e la necessità, lui [Cesare] con cinque legioni e un pari numero di cavalieri, che aveva lasciato sul continente, verso il tramonto salpò…
Il brano è una compagine perfetta, condita di precisione aritmetica; si direbbe, un vero e proprio pezzo di architettura grammaticale. Non a caso Cesare ama la scienza dell’edificare, e risulta davvero un maestro della prosa latina là dove racconta come sono fatte certe costruzioni: il ponte sul Reno (IV, 17), messo in piedi in soli dieci giorni (la rapidità è una delle doti principali di Cesare) per consentire all’esercito romano di passare dalla Gallia alla Germania e dopo diciotto giorni, essendo Cesare rientrato in Gallia, smantellato; le mura dei Galli (VII, 23); le navi dei Veneti (III, 13). In questi passi abbondano le notazioni numeriche – distanze e dimensioni. La lingua è impegnata a rappresentare con la massima economia il crescere di una struttura, la corrispondenza tra le parti, la tenuta del complesso. La lingua – ci mostra Cesare – è ponte, è muro, è nave: congiunge, contiene, traghetta. È, insomma, sintassi: assemblaggio di elementi necessari in vista di una data funzione, che per Cesare, nella fattispecie, è informare e spiegare, misurando e conquistando tutti i territori del dicibile.
2 – continua
Terza puntata – Virgilio, il tempo ritrovato
L’autore dell’«Eneide» sta alla poesia come Cicerone sta alla prosa. I suoi versi sono percorsi da brividi da «Recherche» proustiana
Nell’eventualità di una catastrofe totale l’ Eneide sarebbe il libro da salvare, perché è l’anticipazione di molti altri libri, ed è una condensazione dell’ Odissea e dell’ Iliade, i libri più antichi della civiltà occidentale. Quando sant’Agostino, nel De civitate dei, cerca argomenti per affermare la superiorità della nuova religione cristiana, proprio dall’ Eneide trae esempi per screditare tutto il paganesimo, perché l’Eneide era assurta a testo di tutta una civiltà, era davvero l’ altro vangelo.
L’estinzione, comunque, l’Eneide non l’ha mai rischiata, a parte quando Virgilio stesso, in punto di morte, non avendo potuto dare l’ultima mano, chiese agli amici di bruciarla. Ma gli amici disobbedirono, e dei classici antichi l’Eneide è quello che ha ricevuto la più prolungata e regolare lettura. Nessuna epoca è rimasta senza l’Eneide. Nessuna epoca l’ha dovuta riscoprire – come, invece, si sono dovuti riscoprire Lucrezio, Catullo e molti altri. Neppure l’opposizione cristiana, tanto efficace in certi casi, è bastata. E si arriva al tempo in cui il poeta cristiano per eccellenza, Dante, fa di Virgilio addirittura il suo maestro. Così Petrarca, l’altro capostipite della letteratura italiana, altro cristiano, a Virgilio rivolge un culto tutto personale.
La fortuna di Virgilio sta prima di tutto nella bellezza della sua lingua. Nessun altro poeta antico, neppure il bravissimo Orazio, gli è pari. Nessuno dice come dice lui; nessuno convince come convince lui; nessuno rappresenta come rappresenta lui; nessuno commuove come commuove lui. Nella storia del latino letterario Virgilio sta alla poesia come Cicerone sta alla prosa. Questa proporzione è uno dei miti portanti dall’umanesimo, ma riflette una realtà storica. Virgilio ha rifondato la lingua poetica di Roma e ne ha fatto un lascito intramontabile. Una certa dipendenza dai predecessori (Ennio, Lucrezio, Catullo), nel lessico e in certe immagini, è senz’altro riscontrabile, ma il latino virgiliano vive tutto al di fuori delle costrizioni tradizionali: assimila e riordina, non subisce.
Tanto eccelle Lucrezio nella riforma del lessico quanto Virgilio nella ristrutturazione della sintassi: sia nella misura del breve sintagma, della iunctura, sia nell’ordine della frase e nel rapporto, sempre dialettico, tra frase e verso. Nessuna traccia di schematismo o di prefabbricato. Lucrezio mostra e definisce, Virgilio movimenta e drammatizza. Lucrezio tende a contenere in un singolo verso un’unità sintattica compiuta. Virgilio, se anche crea versi che coincidono con frasi finite, di principio spinge la frase oltre la misura del singolo verso (come, certo, vuole la natura narrativa del suo poema); e, in questo modo, crea enjambement, il tratto più distintivo della sua lingua, direi addirittura la struttura più profonda della sua mente. Assai spesso nell’Eneide la prima parola del verso che segue è il verbo di quello che precede. Il verbo arriva, così, di sorpresa, in aggetto; e, siccome viene a coincidere con un’unità metrica di notevole importanza strutturale, l’inizio del verso, la frase di cui lo stesso verbo è parte riceve una specie di scossa, riparte nel momento stesso in cui si sta concludendo. Qualunque inerzia risulta azzerata. In enjambement – va da sé – si può trovare anche un aggettivo, anche un avverbio, insomma qualunque parte del discorso: e anche in questi casi il senso della parola si intensifica, un brivido solleva la pelle della frase, se così posso dire.
La semantica, dunque, in Virgilio, acquista pienezza di senso e si riverbera nel discorso non a partire da una aprioristica assegnazione di significato – il caso di Lucrezio, puntiglioso lessicografo –, ma dalla posizione che la parola si ritrova a occupare nella frase. Virgilio è davvero un maestro dell’ordo verborum. Leggendo l’Eneide, si avverte una libertà, una fluidità che Lucrezio non comunica; e con questa libertà, però, si percepisce anche l’esattezza, il controllo perfetto di tutti i movimenti dell’ingranaggio: ciascuno, lavorando per sé, di fatto lavora per l’insieme, perché l’equilibrio del sistema non sia menomato e perché, allo stesso tempo, all’interno del sistema quel flusso armonizzante, che tutto trascina in una sola direzione, non impedisca a certi picchi di uscire, come isole in un mare.
Un altro tratto tipico, che informa temi e stile: la memoria. Ancora, in fondo, una questione di “ordine”, di “collocazione”. Enea ricorda, Didone ricorda. Tutto e tutti hanno l’anima piena di passato. Questo poema è già una “ricerca del tempo perduto”. Si dirà che l’Odissea lo è ancor prima. L’Odissea, in verità, è un canto sul ritorno. Odisseo ricorda una patria e lì, a un certo punto, effettivamente ritorna. Il tempo ritrovato dell’Eneide, invece, non è un ritorno, ma un’illusione, un recupero vicario, perché avviene in un altrove: nel Lazio, non certo a Troia, che è distrutta. Ha, dunque, sempre qualcosa del rimpianto; è indistinguibile dal pensiero dell’irrevocabile.
E Virgilio è così nostalgico, così devotamente rivolto al ricordo che non solo crea personaggi che ricordano e che più non vorrebbero farlo, ma ci fa vedere in vere e proprie epifanie come le cose invecchiano e perdono il loro senso originario, e perfino diventano segni e strumenti di morte. Gli oggetti dell’Eneide! Stanno lì per dirci che un mondo è finito, per confondere oggi e ieri e domani. Prendiamo il momento che precede il suicidio di Didone, momento davvero esemplare. Il narratore sottolinea che la spada è un dono del troiano Enea. Ma no, non è il narratore: quell’osservazione è nella mente della stessa Didone; è un discorso riportato. La spada sguainata è, letteralmente, un “ricordo”. La grammatica stessa inscena, nel giro di un solo periodo, il convergere di passato presente e futuro nei tre participi: “coeptis” (l’azione appena intrapresa), “futura” (l’imminenza ineludibile della fine), “quaesitum” (l’evento originario, la richiesta del dono/pegno). “Morte futura”, crudele ossimoro, rincara la dose; l’essere e il non essere fatti concordare.
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3 – Fine