Il #jazzista suona l’#aulòs : la musica di 2500 anni fa
di Iacopo Gori (Corriere La Lettura 29/11/15)
Riascoltare la musica perduta degli Etruschi è la sfida affascinante quanto folle di un’archeologa e di un jazzista. Partendo da due strade molto lontane l’etruscologa Simona Rafanelli, direttrice del museo archeologico Isidoro Falchi di Vetulonia, nella maremma toscana, e il sassofonista Stefano Cocco Cantini hanno compiuto insieme un viaggio alla ricerca di un suono immaginario che alla fine è diventato reale.
Insieme hanno osservato e studiato, nel museo di Archeologia subacquea di Porto Santo Stefano, gli strumenti a fiato in legno di bosso e avorio attribuiti agli Etruschi e ritrovati pochi anni fa incredibilmente intatti — grazie alla pece che li ha protetti — nella stiva della nave affondata 2600 anni fa all’isola del Giglio. Li hanno confrontati con quelli dipinti nelle tombe etrusche di Tarquinia, comparati con quelli sui rilievi delle urne di Chiusi e paragonati con gli strumenti reali esposti a Paestum: fori e dimensioni combaciavano. Cantini, carte e numeri alla mano, ha recuperato legno di bosso stagionato (in Ucraina), ha contattato un artigiano (sardo) e si è fatto ricostruire tre strumenti uguali per forma, dimensioni e materia a quelli rinvenuti nel relitto etrusco del Giglio. Su «la Lettura» ne aveva dato notizia Valerio Cappelli lo scorso 19 luglio.
«Perfettamente cilindrici, non conici come quelli greci. Una copia esatta e fedele di quelli reali» dicono a «la Lettura» Rafanelli e Cantini. Il problema, una volta ricreati, era farli suonare. «Sappiamo per certo quali note non potevano produrre questi miei colleghi di oltre 2700 anni fa», sostiene Cantini che gira il mondo con il suo quartetto suonando arrangiamenti di John Coltrane, uno dei miti del jazz. «Mi svegliavo la notte per cercare di capire come avrebbero potuto funzionare finché non ho scoperto il segreto». «E il segreto ce l’hanno rivelato loro, gli Etruschi», prosegue Rafanelli, una vita dedicata allo studio di questa popolazione dell’Italia antica.
«Gli Etruschi erano il popolo musicale per eccellenza. In tanti dipinti si vedono musicisti suonare in ogni occasione: funerali, matrimoni, banchetti, negli incontri di lotta. Tutta la vita degli Etruschi era permeata di musica. Gli strumenti più raffigurati sono quelli a fiato a canna semplice o doppia, aulòi e tibiae come li chiamavano i greci e i romani. Una volta ricreata la copia esatta dello strumento reale ci mancava l’ultimo pezzo». «Gli strumenti a fiato degli Etruschi — prosegue Cantini — non sono flauti: per emettere suono hanno bisogno dell’ancia, il pezzettino di canna che vibra, come gli strumenti ad ancia di oggi per intendersi (oboe, fagotto, clarinetto, sax). Ma ci sono vari tipi di ance. Guardando i dipinti ci siamo imbattuti in uno solo in cui il musicista è riprodotto con lo strumento fuori dalla bocca nell’attimo prima di iniziare a suonarlo: si tratta della Tomba Giustiniani di Tarquinia, del 450 a.C, nella Necropoli di Monterozzi. Non sono un musicologo ma non ho avuto dubbi: quella è un’ancia semplice battente. Oggi dalle nostre parti viene usata solo per le launeddas , antichissimi strumenti sardi. Ho recuperato quelle ance dalla Sardegna e le ho messe sui tre aulòi ricostruiti. Ho ancora i brividi se ricordo la prima volta che ho sentito quei suoni». Gli stessi brividi che hanno provato nel Salone dei 500 di Palazzo Vecchio a Firenze due anni fa gli archeologi e gli etruscologi che hanno ascoltato le note di Cocco Cantini uscire dal silenzio dopo 2500 anni.
«Li ho presentati io — dice a “la Lettura” Giovannangelo Camporeale, professore emerito dell’Università degli studi di Firenze, una delle massime autorità nel campo dell’etruscologia — però bisogna saper distinguere quello che è certezza dalle ipotesi. Il lavoro di Rafanelli e Cantini (che hanno pubblicato un opuscolo dal titolo La musica perduta degli etruschi , edizioni Effigi, 2013, ndr ) è molto interessante ma nessuno di noi ha sentito strumenti antichi suonare. Nel nostro lavoro bisogna andare avanti per ipotesi, ogni scoperta apre nuove strade che possono confermarle o smentirle. Una cosa dico sempre però: guai a innamorarsi delle ipotesi. Questo è uno degli esperimenti più affascinanti».
«Abbiamo ridato un suono al popolo senza voce — dice convinta l’etruscologa Rafanelli che ora con il jazzista Cantini gira l’Italia tra eventi e convegni presentando la conferenza-concerto — facciamo ascoltare suoni antichi, tonalità sconosciute che fanno vibrare il corpo creando una magia incredibile». «Le frequenze di queste note — prosegue Cantini — sono pazzesche, questi strumenti producono un suono accordato a 432 hertz, come Mozart e Verdi, che mette in discussione ogni ipotesi sulla musica etrusca».
Da questo studio è nato anche un documentario Sulle note del mistero. La musica perduta degli Etruschi del regista Riccardo Bicicchi proiettato alla Borsa del Turismo archeologico di Paestum il 30 ottobre (un estratto è visibile su www.corriere.it/la-lettura) e che sarà presentato, insieme al progetto completo, ai musei italiani, francesi e britannici. Ma Cocco Cantini, da jazzista e sperimentatore, va oltre: il 6 dicembre sarà a Berchidda, in Sardegna, a suonare i suoi aulòi etruschi insieme al virtuoso della fisarmonica Antonello Salis. Melodie inimmaginabili: improvvisazioni con strumenti di 2500 anni fa. Suoni ancestrali, nascosti dentro di noi.