Il duplice capolavoro di #Augusto

Costruì l’Italia e rigenerò Roma

Un leader accorto e pragmatico, abilissimo nell’arte della comunicazione

Con il principato realizzò un cambio di regime proiettato verso il futuro

di Livia Capponi (Corriere 23/12/18)

Le origini

Adottato dal prozio Giulio Cesare, alla morte del condottiero

diventò «Divi filius»

Propaganda

Impersonò la lotta dell’Occidente contro un Oriente visto come

dispotico e barbaro

«Camaleonte» fu il soprannome affibbiatogli nel IV secolo dall’imperatore Giuliano, mentre per lo storico Ronald Syme era uno showman, un personaggio dotato di eccezionali doti organizzative e un grande senso dello spettacolo. Per Cicerone, il giovane Gaio Ottavio, nato a Roma da famiglia non illustre, era il «ragazzo che deve tutto al suo nome»: adottato dal prozio Giulio Cesare, alla sua morte diventò Divi filius cioè «figlio del divino», formula che tradotta in greco suonava come «figlio di dio». Dal 27 a.C. gli fu conferito il nome di Augusto, in onore della sua auctoritas, nozione affine ad «autorità» o, se si preferisce, «autorevolezza», comunque extra-costituzionale. Proclamatosi il difensore della Repubblica contro la monarchia di Marco Antonio e Cleopatra, iniziò di fatto un regime completamente nuovo, il principato, in cui al Senato era affiancato, in una sorta di partnership, il princeps, cioè il «primo cittadino». Portatore di valori quali la moderazione, la guerra al lusso, il rilancio della religione, l’attenzione alla demografia e alle esigenze alimentari e sociali della città, diede il via a una reinvenzione della tradizione, che non mirava solo a soddisfare bisogni presenti, ma progettò consapevolmente un futuro straordinariamente longevo.

La guerra civile non fu solo scontro militare, ma anche battaglia d’idee, dèi e immagini. Ottaviano, presentandosi come protetto da Apollo contro Antonio e Cleopatra, equiparati a Dioniso-Afrodite e Osiride-Iside, impersonò la lotta dell’Occidente contro un Oriente dipinto come monarchico, animalesco, ignorante di istituzioni e leggi, e convinse i suoi concittadini che lo scontro fosse necessario per la sopravvivenza di Roma. Vincitore ad Azio (31 a.C.) grazie soprattutto al valore del suo ammiraglio Agrippa, fornì il resoconto ufficiale del suo operato nelle Res Gestae («I miei atti»), singolare testamento politico diffuso in tutto l’impero, perché s’imprimesse nella memoria dei posteri. «Tutta l’Italia giurò spontaneamente fedeltà a me e chiese me come comandante della guerra in cui vinsi presso Azio. (…) Dopo aver sedato l’insorgere delle guerre civili, assunsi per consenso universale il potere supremo, e trasferii dalla mia persona al Senato e al popolo romano il governo della Repubblica». Esagerazioni, forse, ma non così lontane dalla verità, sostiene Arnaldo Marcone nel volume Augusto, in uscita con il «Corriere» il 27 dicembre.

Coniugando flessibilità e pragmatismo, Augusto assestò il suo potere attraverso una dialettica fra diverse componenti sociali e una sapiente gestione della comunicazione, dell’arte e della religione, quest’ultima da intendersi come ritualità pubblica, non come fede o dogma. Bollare il tutto come propaganda è riduttivo. Le contraddizioni esplosero al momento della successione: quando il potere passò, seppure con i crismi della legalità, al figlio adottivo, Tiberio, fu chiaro a tutti che era ormai iniziato un nuovo regime, che Marcone definisce una «monarchia militare mascherata», e i cui successivi esponenti si dimostrarono quasi sempre inferiori al primo.

Uomo poliedrico e attento all’immagine, si fece raffigurare a Roma come generale vittorioso (Prima Porta) e pontefice massimo solenne e pio (Via Labicana), all’estero secondo il gusto locale, per esempio come faraone in Egitto, o invincibile signore di terra e mare ad Afrodisia in Turchia. Scelse di abitare senza sfarzi in una casa modesta, ma come un «secondo Romolo» la volle sul Palatino, sede dei leggendari inizi di Roma, ora nobilitati dall’opera dell’amico Virgilio. Al contempo, rivoluzionò la città, trasformandola in una capitale senza pari: «Ho trovato una città di mattoni, ve la restituisco di marmo». Diffondendo storie sul suo concepimento da parte di Apollo e pubblicando il suo oroscopo, creò l’idea che il suo futuro fosse scritto nelle stelle. L’obelisco in piazza Montecitorio, gigantesco gnomone di una altrettanto immensa meridiana, puntava la sua ombra sull’Ara Pacis nell’equinozio d’autunno, giorno del suo compleanno.

Il principato di Augusto è oggi valutato più positivamente che in passato, anzitutto come costruzione dell’Italia tutta (non più solo di Roma e del Lazio) come entità etnico-morale fatta di popoli diversi ma consanguinei, in costante dialogo con il mondo greco. Inoltre, il governo delle province si distinse perché non arbitrario e autocratico; il rifiuto di Augusto di un culto esplicito della sua persona, almeno a livello ufficiale, è coerente con tale scelta. Lo slogan di aver «restituito la Res publica», servì non tanto a ripristinare le istituzioni repubblicane, incompatibili con uno Stato così esteso, ma a far emergere una visione ecumenica del dominio territoriale di Roma: un governo regolato non più da capifazione in lotta perenne, ma attraverso una classe dirigente fatta di magistrati competenti e affidabili, secondo norme certe, che dovevano essere di garanzia per i cittadini e per i provinciali, minoranze etniche comprese. Legalità e competenza: due aspetti dell’eredità di Augusto validi ancora oggi.

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