I #mari (e le terre) di #Omero. Intervista allo scrittore Sylvain #Tesson
Mauro Bonazzi (La Lettura, 15/7/18)
Per scrivere questo libro – Un’estate con Omero (Rizzoli)— si è rinchiuso in una piccionaia a Tinos, nelle isole Cicladi, in compagnia di una civetta (Atena?), che squarciava le notti con le sue grida, e tante capre sparse sui terrazzamenti. Ricostruire le rotte di Ulisse è diventata un’ossessione: c’è chi ha immaginato che abbia superato lo Stretto di Gibilterra (le Colonne d’Ercole di dantesca memoria) perdendosi tra le Canarie e l’Islanda, e chi ha collocato i suoi viaggi nel Mar Baltico. Altri ancora si sono costruiti una barca simile a quelle descritte nei poemi omerici e hanno provato a ripercorrere lo stesso tragitto. Esercizi inutili. Ma dai luoghi non si può astrarre se si vuole capirci qualcosa: «Noi siamo figli dei nostri paesaggi», diceva Lawrence Durrell, a ragione. E così Sylvain Tesson, dopo le sue esplorazioni nelle foreste siberiane, ha imparato che la Grecia è soprattutto luce: «Questo paesaggio è duro come il silenzio», ha scritto un poeta greco contemporaneo, Ghiannis Ritsos, «stringe i denti. Non c’è acqua, solo luce». Come nei poemi omerici, in cui le armi sono sempre «sfavillanti», e il sole «infaticabile».
SYLVAIN TESSON – E poi c’è il vento, sempre pronto a increspare la superficie del mare, e a scatenare tempeste. Forse i mostri omerici altro non sono che personificazioni di queste tempeste: quando si sente il vento ululare tra le sartie, non sembra forse di udire una bestia che ruggisce? Il mare non è benevolo e morire nelle sue acque è l’incubo dell’uomo. La schiuma cancella ogni cosa, la risucchia nell’oblio.
MAURO BONAZZI – «Tutto è bello, quanto si rivela» dice Priamo. Il mondo di Omero è un mondo inondato di luce; non attende salvezze future, vive immerso in un eterno presente, in cui gioia e dolore, bene e male si confondono. È un mondo molto diverso rispetto a quello a cui siamo abituati.
SYLVAIN TESSON – Il mondo si offre ogni mattina in regalo all’uomo, ai suoi occhi e agli altri suoi sensi, rivelando la trama delle cose che lo compongono. Bisogna avere il cuore arido per non vedere questa distesa di meraviglie, l’esplosione della vita in tutte le sue forme e trasformazioni, cercando invece rifugio in ipotetici mondi remoti, come quelli promessi dalle grandi religioni monoteiste. Ci angosciamo per il futuro, di cui non sappiamo nulla, quando dovremmo piuttosto preoccuparci della devastazione della natura, a cui assistiamo quotidianamente.
MAURO BONAZZI – In Omero in effetti c’è una concezione diversa del divino, ed è per questo che «divino» può essere definito anche un guardiano di porci, Eumeo, quando accoglie senza riconoscerlo Ulisse, travestito da mendicante. È uno dei pochi che non ha tradito, ma non viene chiamato «fedele» o «virtuoso»: sarebbe stato banale. È «divino».
SYLVAIN TESSON – È una scelta bizzarra: perché definire in questo modo un personaggio tanto umile? Non certo per rivendicazioni di classe come quelle dei marxisti o preconizzando rovesciamenti come quelli del cristianesimo con gli ultimi che diventano primi. Eumeo, il primo uomo che Ulisse incontra dopo le sue avventure con mostri e maghe, è «divino» non perché sia superiore o dotato di grandi poteri, ma perché ha saputo rimanere coerente con sé stesso, conservando la sua dignità: non chiede ma dà, e per questo sa apprezzare quello che accade intorno a lui.
MAURO BONAZZI – Il suo gesto porta inevitabilmente a un tema di stretta attualità, la crisi dei migranti.
SYLVAIN TESSON – C’è una dimensione morale in Omero: lo straniero è un regalo del dio; se si presenta bisogna accoglierlo; invitarlo alla tavola del re è un modo per venerare il dio. L’identità dell’Europa si gioca su questi problemi, non può dimenticare la sua tradizione di accoglienza. Ma c’è anche una prospettiva politica. I migranti sono vittime del disordine (economico, politico, climatico) e a loro volta lo producono: il problema, molto concreto, è dunque quello di ricomporre l’equilibrio perduto a partire dalla situazione in cui ci troviamo, che è comunque ben diversa da quella dei poemi omerici.
MAURO BONAZZI – Meglio non esagerare con gli anacronismi, in effetti: se gli antichi sono interessanti è perché sono inattuali e ci costringono a vedere i problemi in modi inattesi. È in questo modo che Omero, pur non volendo essere un maestro, ci aiuta a capire tante cose su di noi.
SYLVAIN TESSON – Omero non è certo un breviario, ma ancora oggi ci parla, e in profondità. La ragione è semplice: cambiano le congiunture ma gli uomini rimangono gli stessi. Anche oggi non mancano paralleli con la passione rabbiosa di Achille, quando si lancia in battaglia, o con la saggezza di Ulisse, complesso e contraddittorio, che ha imparato ad accettare le cose come sono. Le passioni e l’intelligenza: sono due modi diversi di affrontare le sfide dell’esistenza, che s’integrano a vicenda. L’Iliade è proiettata nel futuro; ogni eroe cerca di mostrare la sua superiorità perché gli altri si ricordino di lui. L’obiettivo è conservarsi nel tempo.
MAURO BONAZZI – In fondo, il vero avversario degli eroi omerici, nell’Iliade, è la morte: non tanto il fatto di morire quanto il fatto che la morte sembra rivelare l’inutilità dell’esistenza degli uomini. Qual è il valore di una cosa che non c’era, che c’è e che poi non ci sarà più? L’eroe è chi si oppone al tempo che tutto cancella; conquistando la «gloria eterna», vuole dimostrare che la sua vita non è stata vana.
SYLVAIN TESSON – L’Odissea è invece il poema della maturità, quando Ulisse rinuncia ai suoi ardori da guerriero e desidera tornare alla vita semplice di un tempo. Nell’Odissea l’eroe è chi ha capito che il problema non è quello di preoccuparsi del futuro, ma di accettare il presente, riallacciandolo al passato. L’Iliade è il poema del disordine, delle passioni che tutto distruggono; l’Odissea è il poema dell’ordine riconquistato, nella serenità della quotidianità.
MAURO BONAZZI – Però Ulisse alla fine del poema annuncia che ripartirà per quello che Dante trasformerà nel «folle volo». La serenità riconquistata rischia di diventare noiosa.
SYLVAIN TESSON – È un problema primordiale, nella vita degli uomini: come scappare alla noia? Céline sosteneva che l’uomo fa la guerra perché s’annoia. Si ritorna così agli eroi dell’Iliade e alle loro battaglie. Iliade e Odissea esprimono i due estremi tra cui oscillano le esistenze degli uomini.
MAURO BONAZZI – Uno degli aspetti più notevoli del libro si rivela nella capacità di individuare episodi apparentemente marginali, riscoprendone la bellezza e l’importanza. Abbiamo parlato del porcaro Eumeo, ma non è certo il solo. Penso a come lei descrive le Sirene, uccelli terribili che volteggiando sopra le nostre teste sanno «tutto quello che avviene sulla terra nutrice di genti»: una prefigurazione sorprendente dei tanti dispositivi elettronici a cui abbiamo affidato le nostre vite…
SYLVAIN TESSON – … e da cui non riusciamo più a staccarci, proprio come capitava ai marinai che le incontravano. Una delle scene più belle è quella in cui i cavalli divini di Achille iniziano a piangere pensando alla fine imminente del loro padrone: a volte persino gli dèi, gli esseri immortali, capiscono cosa significa essere uomini, mortali.
MAURO BONAZZI – E nella reazione di Achille, che si adira con i cavalli, quasi temendo che non lo vogliano portare in battaglia, è una descrizione inimitabile di quell’impasto di grandezza e miseria che è l’uomo – fragile, dominato dalle passioni, ma mai domo. Moriremo, certo («Xanto, perché mi predici la morte? Non ti sta bene./ Lo so anch’io che m’è fatale morire qui»): dovremmo per questo rinunciare a vivere? «Disse, e gridando lanciò in prima fila i cavalli zoccoli solidi».
SYLVAIN TESSON – Ma soprattutto c’è il finale dell’Iliade, quando Priamo appare nella tenda di Achille per reclamare la salma di Ettore: due uomini che accettano di stringersi la mano, capaci di parlare e mangiare insieme, consapevoli che nel mondo degli uomini la violenza e la guerra sono ineliminabili, ma che dell’odio si può fare a meno.
MAURO BONAZZI – Lo dicevamo all’inizio: a rendere straordinario Omero è questa capacità di descrivere quello che c’è per come è, accettandolo nella sua bellezza contraddittoria, senza volersi erigere a giudice di tutto.
SYLVAIN TESSON – In questo risiede l’essenza del paganesimo, ed è una lezione su cui vale la pena riflettere anche oggi, in un mondo che tende invece a distinguere tutto secondo le categorie di bene e di male, aggiungendo l’odio alla violenza. Come diceva Priamo: «Tutto è bello, quanto si rivela». Bisogna imparare a guardare, però.