#Hypnos e #Thanatos, il #Sonno e la #Morte

– Raffaele K. Salinari, Il manifesto, 26/03/2016

Iconografie. I due gemelli ritratti con le ali, si ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella

filosofica greca, nella funzione di Spiriti psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di

accompagnare l’anima all’ultimo destino

Hypnos e Thanatos, il Sonno e la Morte: i «gemelli veloci» che Omero chiama in gioco nella

deposizione dell’eroe Sarpendonte nel canto XVI dell’Iliade. In questo episodio omerico il figlio

Laodamia, della stirpe di Bellerofonte, e di Zeus, dunque fratellastro di Elena, è ferito a morte da

Patroclo sotto le mura di Troia; sarà loro il compito di sollevarne il corpo, pulirlo dal sangue,

avvolgerlo nelle bende ed infine trasportarlo nella terra dei padri. Indistinguibili nell’aspetto

esteriore, entrambi alati, a volte barbati altre imberbi, i due gemelli sono però diversi nei particolari

simbolici che li raffigurano insieme, in particolare nella loro postura iconografica: mentre Hypnos

non sembra avere tratti caratteristici, suo fratello viene raffigurato spesso con una torcia capovolta,

simbolo della vita che si è spenta, o come un bel giovane dai piedi intrecciati, rimando alla posizione

in cui venivano sepolti i morti nell’antica Grecia.

Nelle teogonie classiche il Sonno e la Morte sono parti di una relazione intrinsecamente

complementare; è questo a determinare in essenza il mitologema che li accomuna: stati speculari

che trapassano l’uno nell’altra. Entrambi, infatti, nascono dalla Notte, Nyx, e dalla Tenebra infera,

l’Erebo. E dunque, seppure generati della combinazione delle stesse Potenze – la notte che porta i

sogni e la esiziale tenebra eterna le esprimono in proporzioni differenti, il che li rende speculari sì,

ma non per questo identici; anzi. Mentre il Sonno dimora nell’antro che si affaccia sull’Ade in

prossimità del fiume Lethe, in cui scorrono eterne le acque dell’oblio, la Morte abita invece il suo

tenebroso interno.

È in questo luogo inospitale che Thanatos fissa la sua dimora; ed in esso, non solo trae le anime, ma

non permette loro di uscirne. La loro specularità è dunque sostanziale; il Sonno, insieme ai suoi

molteplici figli, tra cui i sogni, pertiene allo stato dell’essere: entra ed esce dai corpi, «senza fare o

subire alcuna violenza» come afferma Platone riferendosi al daimon Eros, che con esso fa mostra di

un’affinità evidente ed, al contempo, permette ai corpi di uscire ed entrare in lui. Al contrario, il suo

gemello senza figli, «dal cuore di ferro e dalle viscere di bronzo», pertiene invece allo stato del non

essere: opposto per ciò anche ad Eros, entra solamente e, con questo atto, separa l’anima eterna dal

corpo mortale. Eppure entrambi, come vedremo sul Cratere di Eufronio, sono indispensabili al gesto

della deposizione, che dunque simboleggia il passaggio dal sonno, con le sua varie fasi, alla morte.

Il sonno ed il suo sognare

A differenza degli antichi Egizi, la Grecia classica non ammetteva che potesse esserci vita alcuna nel

«sonno profondo», come definivano la morte gli abitanti della terra nilotica. Per gli Egiziani l’essere

aveva tre corpi: ogni volta che ci si addormentava, il Ka, il «corpo di sogno», si librava nell’etere per

poi ritornare, ed unirsi, al «corpo mortale» nello stato di veglia. Ma la veglia non rappresentava che

il pallido riflesso della vera vita: quella nel Regno dei Morti, in cui si era immortali, dato che

solamente un morto è tale in quanto non può più morire. Per questo il Ba, il «corpo del sonno

profondo», imbalsamato nella mummia involucro necrico di preservazione per questo stato

particolare non era solamente una forma estrema di esistenza, ma l’essenza stessa della vita

immortale.

Nell’antico Egitto è dunque la morte a specchiarsi nel sonno. La morte non è che l’inizio: si «nasce

alla morte», alla sua «immensità indefinita». Da qui il senso del mistero che ancora aleggia su queste

credenze. Per la Grecia classica, al contrario, il sonno portatore di sogni è una componente

determinante della vita; possiamo dire che ne orienta lo svolgimento. Nei tempi antichi, incubare

sogni dormire cioè in un luogo ritenuto sacro significava entrare in contatto diretto con il numinoso,

con l’Invisibile. Tutta la biografia degli eroi omerici è governata da sogni e visioni, apparizioni

oniriche di ombre che li visitano e li guidano: «Tu dormi, Atride», dice il sogno nel II libro dell’Iliade,

«Tu dormi, Achille», dice lo spettro di Patroclo. L’ate, lo stato d’animo che spesso domina l’agire dei

guerrieri iliaci, altro non è che un temporaneo annebbiarsi della coscienza lucida; una forma di

onirismo che toglie il senno, ispirato dagli stessi Dei: conduce Agamennone a rifarsi per la perdita

della concubina portando via ad Achille la sua. D’altra parte i Greci non parlavano mai di avere o

fare un sogno, ma sempre di vederlo. Ancora, non solo il sogno visita il sognatore, ma «gli sta

sopra», dice Erodoto; «stava sopra la sua testa» canta addirittura Omero, a significare la potestà

onirica di influenzare, profondamente, la realtà soggettiva del dormiente.

Sul Cratere di Eufronio, capolavoro attico con figure in rosso del V secolo a.C., attualmente

conservato presso il Museo di Villa Giulia a Roma, la scena della deposizione di Sarpedonte è

magistralmente raffigurata. Qui i due gemelli veloci vengono individuati scrivendo il loro nome ma,

ecco l’arcano, quello di Thanatos è scritto al contrario, come se fosse riflesso nell’oggetto che,

elettivamente, permette di coglierne l’isotropa simiglianza col gemello Hypnos: lo specchio. Qui è

dunque la Morte a fare da specchio al Sonno, perché è quest’ultimo che interagisce con la vita; è la

vita stessa, mentre la morte rappresenta il suo speculare contrario: la vita si specchia nella morte.

Non basta, allora, solo il nome per simboleggiare Thanatos; per portare ad effetto il suo significato

essenziale di nomen omen, lo si deve vedere come riflesso su di una superfice che rimanda al vivente

l’immagine della sua ineludibile condizione futura: Thanatos è lo specchio del destino di Hypnos,

cioè di colui che al momento dorme ma che, inevitabilmente, un giorno passerà dal sonno alla morte.

Passano i secoli e vediamo come i due gemelli, che anche sul cratere sono ritratti con le ali, si

ritrovano sia nella tradizione ebraica che in quella filosofica greca, nella funzione di Spiriti

psicagoghi, cioè di Angeli che hanno il compito di accompagnare l’anima all’ultimo destino. La

tradizione rabbinica ci dice che possono entrare in cielo soltanto quelli la cui anima è portata da

questi particolari messaggeri. Nella Parabola del povero Lazzaro e del ricco Epulone è Gesù stesso

che gli attribuisce questa funzione: “Il mendicante morì e fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo”

(Lc. 16, 22). E ancora, esattamente come fanno i gemelli col corpo di Sarpedonte, nella lettura

apocalittica giudaico-cristiana dei primi secoli si parla di angeli psycopomnes che coprono il corpo

«con lini preziosi e lo ungono con olio fragrante, poi lo mettono in una grotta rocciosa, dentro una

fossa scavata e costruita per lui. Ivi resterà fino alla resurrezione finale».

Il «Compianto»

E così vediamo che, nel canto dell’Iliade come nella sua raffigurazione sul Cratere di Eufronio, i due

gemelli depongono Sarpedonte traendolo dal campo di battaglia per depositarlo nel suo sacello in

Lidia. Il gesto è dunque l’archetipo di ogni deposizione dell’eroe e, nel corso dei secoli, verrà

ripetuto innumerevoli volte attingendo proprio da questo schema e con gli stessi personaggi

simbolici: il Sonno e la Morte. Saranno, infatti, gli stessi personaggi, seppur adattati alla nuova

narrazione religiosa, che ricompariranno sia nella cosiddetta figura del «Compianto», cioè nella

deposizione del Cristo Morto sulla croce e nella sua traslazione verso il sepolcro, sia in quella che è

la sua controparte femminile, cioè la Koimesis o Dormitio Verginis.

In particolare il Compianto medioevale e rinascimentale, i periodi in cui questa immagine viene

dipinta più frequentemente e con più attinenza all’episodio evangelico, attinge alle fonti letterarie

del Vangelo apocrifo di Nicodemo, detto anche Acta Pilati, nonché ai sermoni di Giorgio di

Nicomedia del X secolo. Le prime raffigurazioni di questa scena vengono però dalle miniature

bizantine del IX secolo, in cui inizialmente compaiono solo due personaggi, oltre al Cristo Morto:

Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, due fratelli membri del Sinedrio che, come vedremo, altro non

sono che le trasposizioni in chiave cristiana di Hypnos e Thanatos.

In più, se prendiamo le scene miniate che illustrano le omelie di Gregorio Nazianzeno (329-390),

Padre e Dottore della Chiesa nonché maestro di San Girolamo, dedicate all’Imperatore bizantino

Basilio I attualmente conservate presso la Biblioteca Nazionale di Francia vediamo chiaramente

come le posture delle figure di Nicodemo e Giuseppe di Arimatea siano derivate da quelle di Hypnos

e Thantos sul Cratere: immobili nell’atto di sorreggere il Cristo Morto mentre San Giuseppe, come

Hermes, sta ritto sulla scena nel gesto di dare ordini ai due. In questa immobilità, in questa ieratica

staticità delle figure bizantine, possiamo allora ritrovare il filo dell’immagine originaria presente nel

canto omerico e ripresa dal ceramografo Eufronio, che per la prima volta ci mostra la deposizione di

un essere divino. Il cosiddetto Threnos la figura composta dai quattro personaggi visti nel loro

insieme è dunque originato da questa sospensione dell’azione, da questa pausa quasi meditativa che

invita lo spettatore ad immedesimarsi nell’attimo del passaggio dalla vita alla morte.

Ma certo la postura delle figure, ripresa poi in innumerevoli dipinti con l’inserimento della Vergine e

di altri personaggi di contorno, non basta a verificare il passaggio dall’archetipo figurativo greco,

della Pathosformel della deposizione come avrebbe detto Aby Warburg, al suo omologo bizantino. E

allora, per far combaciare ulteriormente le due rappresentazioni dobbiamo chiederci: chi

rappresenta Thanatos e chi Hypnos in chiave cristiana? Ebbene se guardiamo alla storia narrata dai

Vangeli ci accorgiamo immediatamente che Giuseppe di Arimatea è Thanatos mentre Nicodemo è

Hypnos, perché?

Giuseppe di Arimatea e Nicodemo

Giuseppe di Arimatea è il membro del Sinedrio che annuncerà a Pilato la morte del Cristo e così

rende possibile che egli venga deposto dalla Croce. Qui abbiamo già un attributo chiaro che lo

identifica con Thanatos: è lui che stende la dichiarazione di morte di Gesù di Nazareth. Dichiarare

deceduta una persona, specie sottoposta al supplizio della croce, non era un compito facile.

Bisognava avere una certa esperienza empirica di come si presentava un corpo morto in quel modo,

poiché al tempo gli strumenti diagnostici non erano esistenti. E dunque chi meglio di Thanatos

riconosce, per così dire, la sua opera? Ma non è tutto.

Giuseppe di Arimatea ha anche i tratti caratteristici di un’altra divinità legata alla morte: Anubis.

Infatti gli attributi della divinità dei morti egiziana sono: «Colui che presiede l’imbalsamazione»,

«Colui che è sulla montagna», intendendo la montagna dove erano scavate le tombe, ed infine «Colui

che è nelle bende» intendendo non solo le bende funerarie ma la loro simbologia resurrezionale. Ed

è proprio Giuseppe di Arimatea che metterà a disposizione del Corpus Cristi sia gli unguenti per

lavarlo, come avviene per Sarpedonte, sia le bende del sudario sia, infine, la sua stessa tomba

scavata appunto sul fianco di una montagna. Dal lato opposto troviamo invece Nicodemo-Hypnos.

Anche qui l’archetipo muta nella forma mantenendo così intatta la sostanza. Se guardiamo alla sua

figura in chiave simbolica ci accorgiamo che essa è tutta in un susseguirsi di sogni; Nicodemo, infatti,

vive, per così dire, una vita che è sogno, come avrebbe detto Pedro Calderón de la Barca. I sogni che

marcano la sua figura, tutti inerenti la deposizione di Cristo, sono certamente tre. Nel primo si

racconta che Nicodemo si prefisse il compito di riprodurre nel legno l’immagine di Gesù Morto così

come egli se lo ricordava. Dopo aver scolpito il corpo si arrestò di fronte alla difficoltà di riprodurne

il Volto. Dopo lunga preghiera, cadde addormentato; al suo risveglio ebbe la sorpresa di vedere

l’opera compiuta da mano angelica.

Qui appare evidente la relazione tra il Volto del Salvatore e la sua intrinseca natura divina, come

magistralmente ci dice Pavel Florenskij nel suo saggio sull’iconostasi Le Porte Regali. Per questo

studioso delle icone è il Volto che racchiude l’essenza numinosa, ed in particolare lo sguardo, che

egli definisce come vero e proprio «simbolo ontologico». Un simbolo è sempre «più di ciò che appare»

e dunque l’Immagine evocata in sogno da Nicodemo corrisponde al Ba, al «corpo del sonno profondo»

del Cristo.

Dice ancora Florenskij che certe Immagini che separano il sogno dalla realtà, separano il mondo

visibile da quello invisibile, ed in tal modo congiungono i due mondi. Il sogno visionario del Volto, si

badi bene del Volto come Nicodemo lo ricordava, non di una semplice riproduzione, cioè di una mera

ed imperfetta maschera funeraria, diviene così il limite comune alla serie delle situazioni terrene e

alla serie delle esperienze celesti. Nicodemo entra dunque, attraverso il suo sonno profetico, in

diretto contatto col suo stesso volto attraverso quello di Dio: si scopre come essere nell’infinito

Essere; questa è «l’abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile», conclude Florenskij. Influenzato a

vita dal suo primo sonno estatico Nicodemo, prossimo a morire, affida l’opera a Isacar, uomo giusto

e timorato di Dio.

Di generazione in generazione essa fu segretamente custodita e venerata. Circa seicento anni dopo,

nei pressi del luogo dove l’opera era custodita, giunse il Vescovo Gualfredo, al quale apparve in

sogno lo stesso angelo scultore che gliene svelò la presenza. La scultura fu collocata allora su una

barca affidata alla Divina Provvidenza perché la facesse giungere in luogo degno. Nella barca furono

poste anche due ampolle contenenti il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe d’Arimatea con

Nicodemo. Dopo un lungo viaggio la barca giunse nei pressi di Luni. A capo della diocesi di Lucca vi

era allora un Vescovo noto per aver traslato nella città i corpi di molti santi, al quale apparve in

sogno l’angelo che gli suggerì di andare a Luni a recuperare la barca ed il suo prezioso carico. E

dunque la catena di sogni termina con la traslazione della reliquia in un luogo protetto dove

simbolicamente si compie il sogno di Nicodemo.

La Dormizione di Maria

Ma la figura che chiude il cerchio archetipico, che dunque essenzialmente assomma e sussume

entrambi gli aspetti della Deposizione, fonde e confonde il Sonno e la Morte riportandole all’unità

originaria, è certamente quella di Maria nell’atto della sua Koimesis, la «Dormizione». La Madonna

altro non è, nella raffigurazione cristiana, che l’ultima ipostasi della Grande Madre, della Grande

Potnia mediterranea, dell’unica Dea totipotente che dominava la religiosità arcaica prima

dell’avvento delle divinità legate al patriarcato.

È lei che crea tutto, che è tutto. Tra le sue creature ci sono i primi Dei e le prime Potenze, i Titani ed

Eros protogeno, la Notte ed Erebo dai quali vengono poi generati i «gemelli veloci» via via

enumerando sino a Gesù di Nazareth. Tutto è tutti sono allora suoi figli e, al tempo stesso, sue

manifestazioni. E dunque neanche la spiccata misoginia ecclesiastica ha potuto soffocare alla radice

la potente evidenza arcaica, l’intuizione profonda, sacrale, che la Creazione è generata e curata da

una Essere dalle qualità femminili. Il corrispettivo di questa ascendenza, nell’iconografia cristiana, è

certamente quello della Madonna della Misericordia che, sotto il suo vasto mantello, ospita tutto il

Creato, morti inclusi.

Perciò Maria non può morire, ed alla fine della sua esistenza terrena si addormenta e viene assunta

in cielo in questo stato peculiare, unico, come si conviene alla Madre di Dio, a colei che lo ha

generato, partorito e curato; non solo, ma che lo ha resuscitato, poiché sappiamo che senza il suo

sguardo amorevole sul corpo morto del Figlio, senza la carica resurrezionale che emana dal suo

Volto intenso ed estatico, il Cristo non sarebbe mai risorto, non avrebbe avuto motivo di farlo. Come

la Basilinna durante le Grandi Dionisiache si accoppia con un simulacro del dio per rigeneralo e

consentirgli di riprendere il ciclo della vita indistruttibile, così Maria fa rinascere la vita eterna dalla

morte del Cristo. L’erotismo che traspare nei suoi gesti altro non è che la quintessenza della sua

stessa definizione secondo Georges Bataille: portare la vita sin dentro la morte. «Ti sei

addormentata ma non per morire, assunta, ma non abbandoni il genere umano».

Così recita il testo di un panegirico sulla Dormizione del secolo VIII. «Colei che diviene madre

partorendo, rimane vergine incorrotta, perché Dio era Colui che veniva generato; così nella tua

Dormizione vitale, tu sola a buon diritto, rivesti la gloria della persona completa di anima e di corpo»

dice Teodoro Studita, giustificando al contempo il dogma della Immacolata Concezione senza per

questo dover rinnegare la forza numinosa dell’archetipo precristiano. Non a caso la Festa della

Dormizione della Madre di Dio, celebrata il 15 agosto, che risale ai secoli VI e VII, ed è

originariamente legata alla comunità di Gerusalemme, veniva preparata ed introdotta dall’Ufficio

della cosiddetta «Paraclisis», cioè chiedere l’intercessione della Grande Madre che tutto può perché

tutto è. E così nel suo sonno eterno che non è né morte né sonno, ma eterno sogno, Maria di

Nazareth sogna se stessa, sogna il Mondo.

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