“Ho osato riscrivere #Tacito sulla strage di #Teutoburgo”
Sono entrato nel cuore di #Arminio, il germanico che tradì i #romani e ho sofferto a “uccidere” ad uno ad uno i legionari di #Varo
di Valerio M. #Manfredi (La Stampa TuttoLibri 1/10/16)
«Vare, redde mihi legiones!» Queste, secondo la testimonianza di Svetonio, le sconsolate parole dell’imperatore Augusto dopo aver saputo della strage di Teutoburgo (9 d.C.), un disastro che tolse il sonno all’imperatore e lo convinse a rinunciare per sempre alla romanizzazione della Germania. Quella battaglia tremenda che cambiò le sorti del mondo di allora ma anche del nostro mondo di moderni, durò tre giorni e tre notti sotto l’infuriare dei temporali. Sconvolto, Augusto si convinse definitivamente della impossibilità di annettere la Germania. Abbandonò così uno dei più ambiziosi progetti dell’Impero romano, quello di portare il confine nordorientale all’Elba, seicento chilometri a est del Reno.
Augusto aveva condotto in Germania quasi vent’anni di guerre con massicce campagne militari impegnando decine di legioni, centinaia di macchine da guerra e migliaia di navi delle flotte fluviali e oceaniche, ma quella disfatta fu per lui un punto di non ritorno.
Ovviamente l’onta di Teutoburgo doveva essere vendicata e Tiberio, divenuto imperatore, affidò l’impresa al nipote Germanico che tornò sul campo di Teutoburgo disseminato delle ossa di ventimila uomini sei anni dopo il disastro per dare loro sepoltura, poi condusse la sua enorme armata contro Arminio a Idistaviso. Fu un bagno di sangue: mentre Germanico gridava «Non fate prigionieri!» i Germani lasciavano sul campo più di ventimila guerrieri disseminati lungo un’estensione di trenta chilometri. Il conto era saldato. Germanico supplicò Tiberio di permettergli di condurre a termine la conquista della Germania, ma non ci fu niente da fare. Dovette rientrare a Roma e ripartire poi per l’Oriente dove morì in circostanze misteriose. Due anni dopo morì anche il suo grande nemico Arminio perché voleva farsi re di tutti i Germani (il primo Reich?), assassinato dai suoi stessi consanguinei.
Molti sono gli interrogativi che restano senza risposta: perché Augusto voleva il confine all’Elba? Semplice rettifica del confine Reno-Danubio? Improbabile. E come mai Varo si fidò ciecamente di Arminio quando importanti capi germanici lo esortavano a metterlo subito in catene assieme a tutti i suoi compagni per alto tradimento? E come non si accorse in giorni e giorni di marcia che il comandante dei suoi ausiliari germanici lo stava portando in un mattatoio senza via di uscita? E come si era guadagnato Arminio la cittadinanza romana e il rango di eques se non in veste di ufficiale dell’esercito romano uccidendo molti dei suoi consanguinei durante le campagne di Tiberio del 5 e del 6?
Un eroe scomodo per la Germania moderna.
Come sarebbero stati l’Europa e il mondo se la Germania fosse stata romanizzata, se i popoli che un giorno avrebbero distrutto l’impero, devastato e saccheggiato le sue città avessero appreso il latino e imparato la disciplina sotto le aquile?
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Non avevo mai esplorato in forma letteraria un evento di tanta formidabile potenza e mi sono riletto a fondo soprattutto Tacito, Velleio Patercolo e Dione Cassio.
Ma come delineare Arminio? Un mastino addomesticato alla guerra che scopre di essere nato lupo? E come suo fratello Flavus («biondo» il nome germanico è ignoto) che era anche lui un ufficiale romano e lo rimase anche dopo Teutoburgo: chiamò suo figlio «Italicus», come dire che la sua scelta di campo era chiara e lo sarebbe rimasta per sempre. Gli ho messo sul volto la maschera di bronzo del museo di Kalkriese per farlo comparire irriconoscibile a Teutoburgo e uccidere suo fratello Arminio se fosse stato possibile. Ho osato riscrivere l’incontro singolo dei due fratelli sulle rive del Weser, troppo retorico e impostato nella superba pagina di Tacito. L’ho riempito di foga e di insulti. Più verosimile. E mi sono occupato anche di altri due fratelli: il centurione Marco Celio, raffigurato in alta uniforme e decorazioni in un piccolo cenotafio del museo di Bonn, caduto a Teutoburgo e suo fratello Aulo, di Bologna tutti e due. «Se troverete le sue ossa portatele qui» ha scritto sulla pietra. Doveva aver seguito Germanico sul campo della strage per cercare le ossa del fratello centurione. Me li sono tirati su i miei personaggi e mi ci sono affezionato (in narrativa è lecito). E mi sono affezionato a tutti i legionari di Varo fatti a pezzi, inchiodati agli alberi attraverso le orbite degli occhi. Non potevo evitarlo. E ho sofferto a ucciderli uno per uno con le spade e le lance germaniche.